80 anni fa: Berlino 1936

80 anni fa: Berlino 1936

Wolfgang Furstner, dopo gli orrori e la disperazione che la seconda guerra mondiale aveva portato con se, decide di ritornare in uno dei luoghi che avevano animato il suo passato, per rivivere quei momenti e quell’atmosfera, di una Berlino che nella prima metà del XX secolo era diventata la città simbolo di un’era e che ora è soltanto teatro di una tragedia.

Così si apre il sipario del teatro Quirino su “Olimpiadi 1936”, uno spettacolo che si preannunciava interessante e si è rivelato molto di più, perché ad interpretare Furstner, in abito rigorosamente nero e vistose bretelle arancioni, non è stato altri che Federico Buffa, giornalista e telecronista, affermata voce di Sky sport.

Buffa è diventato famoso nel settore catodico per la sua straordinaria abilità nel raccontare storie di sport e per la sua grande capacità di coinvolgere il pubblico,  grazie al programma “Storie Mondiali” in cui, prima dei recenti mondiali di calcio in Brasile, ha fatto riaffiorare alla mente dello spettatore emozioni e ricordi, spesso attingendo ai propri.

Ci si ritrova, quindi, catapultati indietro di quasi un secolo, attraverso il flusso di magiche parole evocative di Buffa e le immagini di “Olympia”, film capolavoro della regista Leni Riefensthal, che con il suo occhio e le numerose telecamere messele a disposizione dal regime, ha ripreso le prestazioni di quelle che si sarebbero consacrate come vere e proprie leggende sportive.

Tra gli innumerevoli eventi di quella edizione, ricorda l’introduzione come disciplina olimpica di una pioneristica pallacanestro, molto diversa e lontana dalla spettacolare NBA che ci tiene oggi incollati davanti allo schermo fino a tardi, vedendo trionfare l’allora dilettante selezione U.S.A., ricalcando quella che diverrà una costante delle edizioni successive; celebra il trionfo della selezione di calcio azzurra, guidata dal vincitore del mondiale casalingo del 1934, Vittorio Pozzo, l’allenatore più vincente del calcio italiano, che due anni dopo si laureerà ancora campione del mondo, e trascinata da uno straordinario Annibale Frossi con 7 reti, tutte indossando i suoi caratteristici occhiali. All’euforica celebrazione dello spirito sportivo si contrappone il nefasto eco dei fatti storici, come la guerra civile spagnola e l’ascesa al potere dei totalitarismi.

Ma una volta delineato il quadro generale, Buffa abbandona i panni del comandante (quelle orribili bretelle arancioni, brrr) e si cala nella sua dimensione ideale, quella del narratore: il buio cala sul palcoscenico, l’accompagnamento strumentale di Alessandro Nidi al pianoforte, Nadio Marenco alla fisarmonica e Cecilia Gragnani, che canta in ben quattro lingue, lascia il posto alla pura narrazione degli avvenimenti.

Rinunciando ad ogni artificio scenico e seduto solo fronte al pubblico, Buffa riporta le imprese, sportive e non, di due dei protagonisti indiscussi di quelle olimpiadi.

Non poteva infatti mancare una straordinaria storia, quella di Jesse Owens, atleta afroamericano, arrivato dalle piantagioni dell’Alabama, contro le pressioni politico-razziali esercitate sul comitato olimpico dell’epoca contrario a far gareggiare atleti ebrei o di colore, a vincere ben quattro medaglie d’oro – 100, 200 metri piani, salto in lungo (famoso il suo duello con l’amico e rivale, Luz Long) e staffetta 4×100 – dopo aver infranto record su record in corso di qualificazione; è passata alla storia la sua gara sotto gli occhi dell’Olympiastadion e del Fuhrer in persona.

Allo strapotere della saetta Owens, fa da contraltare la lunga corsa di Sohn Kee-chung, maratoneta coreano, che gareggiò però con i colori degli occupatori della sua terra, i giapponesi, i quali arrivarono a cambiargli persino il nome pur di cancellare ogni traccia della sua origine. Il futuro tedoforo delle olimpiadi di Seul alla premiazione nasconderà con la piccola quercia offerta al vincitore l’onta di correre e trionfare per l’oppressore.

Sul finire Buffa menziona uno per uno i partecipanti alle Olimpiadi del 1936 e i retroscena che seguirono: Owens non ottenne alcun riconoscimento per i traguardi raggiunti nell’America degli anni trenta, tutt’altro che razzista, finendo per gareggiare in gare clandestine, anche contro cavalli, senza mai perdere la fierezza del vincente; Sohn non riuscì mai a vedere la sua terra libera e unita; la rappresentanza spagnola dovette abbandonare la manifestazione per combattere, schierata su fronti opposti, la guerra civile; Hugo Meisl, che con Pozzo aveva rivoluzionato il gioco del calcio, fu costretto ad assistere impotente all’ascesa del nazismo.

La rapida ascesa della violenza, che trovava radici nelle questioni irrisolte del primo conflitto mondiale, era destinata ad esplodere nella più sanguinosa delle guerre che, sul sottofondo di “Lili Marleen”, renderà ancora più amari e crudeli gli anni che sarebbero arrivati.

 

A cura di Leonardo De Marco

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