In un’antica villa siciliana, tanto bella quanto solitaria, arroccata su un colle circondato dalla migliore vegetazione che l’isola sa offrire, Anna (Juliette Binoche), una donna di origine francese, ha appena perso Giuseppe, suo unico figlio: è uscito una sera e non è più tornato a casa, probabilmente per colpa di un incidente automobilistico. E’ la settimana santa, il paese si prepara a festeggiare la Pasqua e tutta la campagna grida assolata la propria vita. Subito dopo i funerali, Anna riceve da Parigi la telefonata di Jeanne (Lou de Laàge), la fidanzata di Giuseppe, che chiede di raggiungerla. Reduce da un periodo di separazione dal ragazzo, Jeanne è ignara di tutto ed era rimasta d’accordo con lui per trascorrere le feste pasquali di nuovo insieme proprio in Sicilia. Anna accetta di ospitarla, ma una volta arrivata, le racconta un’altra storia: dirà che suo figlio non è ancora tornato, a causa di contrattempi, ma che sicuramente per Pasqua farà ritorno. Inizia così un’attesa sospesa in cui le due donne si scrutano, si cercano, si conoscono, si affezionano, cercano di leggersi a vicenda e di trovare l’una nell’altra la risposta ad un’assenza irrimediabile.
In concorso nella sezione “Venezia’72”, il siciliano Piero Messina, già assistente alla regia di Paolo Sorrentino, da cui impara l’arte di far maniera, senza farne però sfoggio, dirige il suo primo lungometraggio, ambientandolo nei luoghi cari dell’infanzia e dei ricordi, dove ogni cosa ha un suo momento e un suo peso e dove il giudizio è sospeso proprio come il rapporto tra Anna e Jeanne. Una vuole sapere, l’altra non vuole riconoscere, eppure l’una è indispensabile all’altra per protrarre il più a lungo possibile il contatto con l’oggetto amato. Questa finzione fa le veci di un dolce addio, il vicolo cieco dell’illusione che permette un distacco meno drastico di quello che è toccato in sorte ad entrambe le donne. Proverà Pietro (Giorgio Colangeli), il custode della villa, onesto e affezionato, a riportare le regole della ragione, invitando Anna a dire la verità alla giovane, ma senza successo; proverà Jeanne a chiedere spiegazioni stanca di non capire i silenzi e il vuoto che il protrarsi inspiegabile di una mancanza ha creato; proverà Anna a far credere alla ragazza che Giuseppe voleva lasciarla perché non l’amava più; ma sono tutti piccoli passi che non deviano la traiettoria, ritardano solo la destinazione. E’ la vita stessa a condannare la morte: scorre implacabile e filtra in modo sempre più percettibile sulle esistenze dei protagonisti costringendoli alla resa dei conti, anch’essa sussurrata dagli sguardi, in un soffio, un accenno, un abbraccio muto. La strada è a senso unico, e la fine è preannunciata già nella scelta di ambientare la vicenda durante la settimana santa: si assapora da subito un climax antireligioso che segue parallelo, ma in direzione opposta, la celebrazione della Pasqua aiutando la catarsi finale. Come la processione sacra osanna la vittoria della vita sulla morte, così quella stessa processione accompagna una madre alla tomba del proprio figlio e lì la deve lasciare.
Ispirato in parte ad una storia reale, in parte alla novella pirandelliana “La vita che ti diedi”, il film incornicia un lutto in un’apnea di sottintesi e non detti che scavano nell’anima dei personaggi e del pubblico più di ogni altro dialogo. Potente e magnetica la situazione iniziale, già carica in nuce di evidente tensione emotiva, cui nulla viene aggiunto, mai una parola in più, né una forzatura; tutto è teso e sotteso come accade tra chi sa e non parla, e chi non parla e forse ha capito. Delicate e poetiche alcune immagini dei personaggi, persi nella natura di un lago o all’ombra di un ulivo, che raccontano da sole come si sta al mondo aspettando una qualche forma di grazia. La Binoche è una montagna che frana, ma resta in piedi, un capolavoro di eleganza e dolore sibilato e lacerante come solo quest’attrice è in grado di impersonare (ricordiamola nel ruolo di Julie, la madre del “Film blu” targato Kieslowski); buona compresenza anche per la giovane de Laàge, calamita di segno opposto, bella, moderna, ostinata, che matura in fretta durante questa convivenza altrimenti improbabile. La scelta di attrici francesi rende le due donne ancor più sole e più unite, amiche e nemiche, sono divise dal mondo che le circonda, ma unite sottopelle, volenti o nolenti; e ciò segna ancor più il confine della dimensione isolata in cui si radica la vicenda.
Resta il pensiero oltre l’immaginario vivificato e gli sguardi traboccanti del film: non è univoca l’elaborazione di un lutto, non è legge, né regola conforme da applicare sistematicamente a tutti senza distinzione; la soglia del dolore è personale e non condivisibile e come tale va accettata; spesso l’attesa della fine coincide con la fine stessa e tanto può bastare per andare avanti. Qualunque sia il modo, prescelto o capitato, alla vita non si torna se prima non la si abbandona, perciò si deve morire se si vuole rinascere, è legge di natura. E quest’opera, farsa intima e dolorosa, congedo malinconico e testardo, che viaggia in punta di piedi verso un oscuro, irresistibile centro di gravità, ne è una poetica, vivida testimonianza. Al resto resta il silenzio.
di Flavia G. De Lipsis