Francesco Giorgino, una laurea in giurisprudenza a pieni voti. Come mai il giornalismo?
Ho sempre sognato di fare il giornalista. Fin da bambino. Ma sono nato in una famiglia di giuristi. E non potevo deluderli. Credo che la laurea in giurisprudenza sia una laurea propedeutica al giornalismo per una serie di motivi. Intanto è importante per un giornalista avere una laurea: quella in giurisprudenza dà un valore aggiunto perché consente una formazione multidisciplinare (diritto costituzionale, diritto civile, penale, internazionale ed europeo, diritto di famiglia, economia politica e scienze delle finanze) su questioni che i giornalisti affrontano quotidianamente. E poi perché ti abitua ad entrare nel vivo delle dinamiche macro e micro sociali, in un contesto sempre più globalizzato e sovranazionale.
Adesso che è un volto noto della TV, a distanza di anni, reputa sia più importante la gavetta (e quindi la formazione) o la passione (e quindi l’attitudine)?
Sono importanti entrambe le cose. Si è buoni giornalisti perché si nasce giornalisti, ma anche perché lo si diventa grazie ad un’adeguata formazione professionale. E’ impossibile cominciare questo lavoro senza avere una passione smisurata nei confronti della comunicazione e dell’informazione e al tempo stesso mi sento di dire che la passione da sola non porta molto lontano. La passione e la formazione si completano a vicenda: sono entrambe condizioni necessarie ma non sufficienti.
C’è stato qualcuno che ha creduto particolarmente in lei in questi anni?
Tutti coloro che mi hanno dato anche una sola opportunità hanno creduto in me: persone che ho avuto la fortuna di incontrare nei diversi step del mio percorso formativo e che hanno investito su di me in termini di fiducia. Ricevere la fiducia di qualcuno è un grande privilegio. C’è sempre qualcuno che crede in te, bisogna solo andare a scovarlo.
C’è qualcuno che negli anni le ha messo qualche bastone tra le ruote?
Nel giornalismo c’è sempre qualcuno che mette i bastoni tra le ruote a qualcun’un altro. Fa parte delle dinamiche relazionali e purtroppo anche di gran parte delle connotazioni antropologiche. Le difficoltà servono anche ad acquisire maggiore consapevolezza della propria passione e determinazione. Quando c’è passione si superano le difficoltà. Non dimentichiamoci che il giornalismo è una delle professioni più individualistiche che ci siano.
Come mai ha scelto la televisione e non la carta stampata?
Ho sempre voluto fare televisione, così come ho sempre voluto lavorare al Tg1. Due sono stati i grandi sogni nella mia vita: fare il giornalista del Tg1 e fare il docente universitario. Per fortuna sono riuscito a realizzarli entrambi. Il Tg1 è la mia seconda famiglia. E come in molte famiglie sane e accoglienti, in Rai sono cresciuto vivendo per lo più momenti piacevoli, entusiasmanti sotto il profilo professionale. Qualche volta, però, ho dovuto fare i conti anche con qualche momento di sofferenza. Ma guai se ci fossero solo momenti belli, la vita sarebbe noiosa.
Qual è il ricordo migliore che si porta dietro da tutti questi anni?
Sono diversi. Il primo è all’inizio della carriera, quando direttore del Tg1 era Vespa: mi diede l’opportunità di avere il primo contratto a tempo determinato alla redazione di Uno Mattina, una sorta di “nave scuola” dell’informazione televisiva. Ricordo quel momento: gli portai delle cassette in cui avevo registrato qualche minuto di quelli che in gergo chiamiamo “stand up”, ovvero sintesi a braccio su fatti di attualità. Mi prese dopo avermi invitato a fare un bel corso di dizione. L’altro momento è quando l’allora direttore Giulio Borrelli mi chiamò per dirmi che era arrivato il momento di andare in video con la conduzione dell’edizione delle 13.30. Da lì ho iniziato il percorso di anchorman che mi ha portato poi alla conduzione dell’edizione delle 20.
Qual è il suo rapporto con la politica?
E’ un rapporto molto tecnico. Ho sempre fatto il giornalista politico, tranne una piccola parentesi nella redazione cronaca. Ho potuto conoscere la politica molto da vicino e da giovane ho avuto anche modo di analizzare dall’interno la cosiddetta “Prima Repubblica: ne è scaturita una riflessione ampia, oggetto di libri come “Intervista alla Prima Repubblica”, “L’un contro l’altro armati” e “Gli eredi di Sturzo”.
Principio dell’imparzialità del giornalista. E’ vero? E’ rispettato da tutti?
L’oggettività non esiste e questo lo possiamo intuire analizzando le diverse fasi del giornalismo. La prima fase è quella dell’osservazione della realtà, casuale o sistematica che sia. Oggi l’osservazione della realtà, grazie agli strumenti delle nuove tecnologie, è sempre più sistematica e sempre meno casuale. Poi c’è la fase della lettura e dell’interpretazione della realtà, nelle quali esiste un notevole tasso di soggettività. Ed infine c’è la fase della descrizione della realtà, ossia la fase narrativa. In tutti questi ambiti l’oggettività in senso assoluto è messa continuamente a dura prova dalla soggettività, anche in buona fede. Anzi, spesso in buona fede. Ma si deve e si può immaginare, invece, un giornalismo obiettivo. Dovere del giornalista è, senza dubbio, la separazione dei fatti dalle opinioni e l’indicazione delle prove a sostegno delle proprie tesi. Ha ragione chi dice che l’informazione si regge sull’equazione “dire per essere creduti”. Se non c’è una credibilità preventiva, il messaggio non riuscirà mai ad arrivare a tutti. Max Weber distingueva fra obiettività orientata al valore e obiettività orientata alla scopo (funzionale perché fatta di regole empiriche e non solo di principi astratti). A me piace immaginare che ci si possa impegnare per garantire almeno l’obiettività orientata allo scopo.
Qual è il suo rapporto con l’editore?
Mi ritengo un privilegiato da questo punto di vista, perché ho un editore che non è rappresentato da una singola persona fisica ma dal Parlamento, sintesi di diversi orientamenti politici, culturali, religiosi. Sa che le dico? Che il mio editore in fondo è la totalità dell’opinione pubblica italiana. E non è poco.
Corso di Newsmaking (Sociologia del Giornalismo). Come mai mettersi in gioco nuovamente nelle vesti di docente?
Innanzitutto non è la prima volta per me nelle vesti di docente, in quanto vengo da una lunga esperienza di docente alla Sapienza, dove ho insegnato prima Sociologia della Comunicazione e poi Sociologia del Giornalismo con particolare attenzione al Newsmaking. Ad un certo punto ho deciso di continuare questa attività accademica all’interno della LUISS, in quanto mi piace molto il modello accademico di quest’università che riesce a coniugare il sapere con il saper fare.
Quanto è incisivo il mezzo televisivo per la notizia?
Tantissimo, anche se non è l’unico. La televisione ha svolto e continuerà a svolgere, pur con linguaggi, piattaforme e format diversi dal passato, un ruolo fondamentale. Deve solo maturare un po’ di più la consapevolezza della propria funzione in un quadro culturale, tecnologico e sociologico completamente cambiato.
Qual è la differenza concreta tra l’Ansa e il Tg1?
Non c’è grande differenza, se non per il linguaggio adoperato. Quello di un’agenzia di stampa è diverso da quello dei telegiornali, sebbene le agenzie oggi assecondino una logica sempre più multimediale. Entrambe, tuttavia, si muovono con l’intento di costituire una certezza nel panorama newsmediale in termini di verifica delle fonti, di ufficialità e di ricerca dell’imparzialità. Il che non significa essere vecchi o noiosi. Al contrario.