Ne Il Formaggio e i Vermi, Carlo Ginzburg ci racconta l’affascinante storia di Domenico Scandella, detto Menocchio. Mugnaio friulano nato a Montereale nella prima metà del Cinquecento, fu processato, torturato, incarcerato e ucciso dall’Inquisizione, con l’accusa di eresia.
Si può immaginare lo stupore del podestà di Portugaro e dell’inquisitore di Aquileia e Concordia, quando sentirono Menocchio, “homo eretichissimo”, dire la sua sull’ordine del mondo: “Et mi par che […] il papa, cardinali, vescovi sono tanto grandi et ricchi che tutto è de Chiesa” e opprimono “et strussianoli poveri”; la sua denuncia sull’uso del latino nei processi, favorevole ai ricchi e “tradimento de li poveri, perchè nelle litti li pover’homini non sano quello si dice […] et se vogliono dir quatro parole bisogna haver un avocato”; sui sacramenti: “credo [che la cresima] sia una mercantia, invention delli homini” e il matrimonio “non l’ha fatto Iddio, ma l’han fatto gli homini” e“andare a confessar da preti et frati, tanto è che andar da un arboro” e “credo che la legge et comandamenti della Chiesa siano tutte mercantie, e si viva sopra di questo”; sulle Sacre Scritture: “credo che la Scrittura sacra sia data da Iddio, ma poi è stata aggionta dalli homini” poichè “quatro sole parole bastarian in questa Scrittura sacra”. Menocchio è stato condannato perchè credeva in una Chiesa che abbandonasse i propri privilegi, che si facesse povera coi poveri, e in una religione semplice i cui unici precetti fossero: “Amar Iddio et amar il prossimo”. Idee molto sconvolgenti per l’epoca, tanto lontane dalla Chiesa di allora quanto vicine a quella di oggi. Almeno quella di Francesco.
L’audace Menocchio è sicuramente figlio della Riforma luterana che, ricorda Ginzburg, aveva “spezzato la crosta dell’unità religiosa” e fatto affiorare un sostrato di credenze contadine vecchie di secoli; ma ancora di più egli è figlio dell’invenzione della stampa, grazie a cui aveva avuto tra le mani libri come la Bibbia in volgare o il Decameron di Boccaccio in edizione non purgata, nonchè Il Sogno di Caraviadi Nicola da Porcía, i cui versi dell’invettiva contro preti e frati attribuita a San Pietro riecheggiano nelle parole di Menocchio:
“Mercato fan di seppellir morti
Come d’un sacco di lana, o di pevere:
In queste cose son molto accorti
In non voler un defonto ricevere
Se i soldi in prima in mano non gli vien porti”
Menocchio era infatti uno dei pochi alfabetizzati del tempo. Ed è grazie ai libriche riuscì a leggere in vita –non tanti, per la verità–che trovò le parole per esprimere ciò che gli passava per la testa, il “sutil cervelo” che elaborò un’originale genesi del mondo, da cui il nome del saggio: all’inizio “tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume, andando così, fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel diventorno vermi, et quelli furno li angeli.”
Non bisogna però erroneamente pensare che sia stata solo una riflessione introspettiva quella che permise a Menocchio di formulare le proprie teorie; esse sono anche frutto di una cultura orale, ben radicata nel mondo contadino. Egli è infatti un mugnaio: e come la bottega e l’osteria, il mulino è un luogo di dibattito spontaneo frutto d’incontri occasionali, dove i contadini che attendono la macinazione del grano possono dire la loro. Il mulino diventa così unospazio rivoluzionario, lontano dai centri abitati e quindi da sguardi indiscreti, dove vagheggiare il paese della Cuccagna e ospitare raduni clandestini per pianificare come sovvertire lo status quo.
Per questo sono così importanti il dibattito e lo scambio di idee –che con questo giornale cerchiamo sempre di stimolare. Se, come afferma Ginzburg nella prefazione del libro, la cultura e la lingua offrono all’individuo “un orizzonte di possibilità latenti – una gabbia flessibile e invisibile entro cui esercitare la propria libertà condizionata”, allora è proprio con il dibattito libero che possiamo far sì che nella nostra esistenza vi sia un po’ più di libertà, un po’ meno condizionata.
Di Francesco Brunetti