Il terrorismo continuerà a colpirci a casa fintanto che non si saprà sviluppare una strategia consona alla realtà nefasta che ci troviamo di fronte. Dopo la strage a Parigi il 13 Novembre, la Francia è stata di nuovo colpita da un attacco siglato e probabilmente pianificato dall’autoproclamato Stato Islamico durante la festa nazionale il 14 Luglio. Contrariamente ai precedenti attacchi, la dinamica di questo attacco rimane forse il più incomprensibile ai miei occhi. Com’è possibile che un TIR abbia potuto percorrere quasi 3 chilometri prima di essere abbattuto in una città come Nizza? Perché è stata assente la sicurezza in un momento in cui l’attenzione a dei potenziali attacchi vendicativi dopo l’uccisione del capo di Daesh in Libia il giorno prima doveva essere massima? Questo mi costringe a mettere in discussione l’efficacia delle forze di polizia francesi, considerando anche la passata esperienza di Parigi. Probabilmente una strage si sarebbe verificata lo stesso, anche se una protezione più adeguata avrebbe reso il bilancio meno disastroso. Ancora non si e’ stabilito se l’attentatore facesse parte di una cellula di Daesh, ma rimane chiaro che si devono fare dei passi in avanti non solo ad un livello operativo e logistico ma soprattutto politico. Per affrontare meglio e prevenire altre potenziali stragi, è necessario sforzarsi collettivamente per creare un’entità di sorveglianza europea, come proposta dalla commissione UE, fondata su un coordinamento tra polizia e intelligence. Se veramente si vuole tutelare l’incolumità delle istituzioni e dei cittadini europei occorre implementare delle misure di sicurezza comuni per smantellare le reti terroristiche e per monitorare lo spostamento tra frontiere dei jihadisti—molti dei quali sono già schedati conosciuti dalle autorità.
Ciò che è accaduto in Francia non è solo tragico da un punto di vista umanitario, ma anche sociale. Molti si chiedono, perché attaccare la Francia? La risposta meriterebbe un’analisi molto più approfondita, anche se si possono reperire due fattori principali che hanno contribuito alla formazione di un movimento di contro-cultura che si manifesta oggi nella “patrie”. Il primo è che la Francia, ha un passato coloniale sanguinoso (guarda Algeria e la stessa Siria) il quale ha lasciato in quei paesi una ferita che non si è mai pienamente rimarginata. E’ da qui che bisogna individuare la provenienza dei germi dell’odio religioso o culturale che l’ISIS è riuscito ad estremizzare. Inoltre, da diversi decenni la Francia ha proseguito una politica intenzionata ad assimilare le altre culture al modello laico francese, ma che di fatto ha creato una forma di “ghettizzazione” sociale—evidenziato dalle così dette ‘banlieues’—che si è propagata in maniera endemica nelle grandi città all’interno della Francia. Ad essere colpita è stata la popolazione prevalentemente musulmana, immigrata dalle ex-colonie. L’assenza di una integrazione adeguata ha inevitabilmente frammentato il tessuto sociale rendendo vulnerabili le future generazioni di musulmani che vi hanno vissuto, favorendo quindi un maggiore radicamento della malavita e della loro soggettazione a gruppi estremisti. Come spiega il sociologo e orientalista Olivier Roy, il processo di radicalizzazione e aspirazione alla violenza occorre rapidamente e ciò è frutto di un allontanamento ed impoverimento tra religione e cultura che provoca un discrepanza identitaria all’interno di queste molteplici comunità maghrebine. In altre parole, ad essere più influenzati e radicalizzati sono gli individui meno praticanti della religione e più distaccati dalle loro radici.
Mentre è chiaro che il panorama interno di diversi paesi europei è ormai caratterizzato dalle importanti tensioni sociali, bisogna considerare due cose: ovvero che il conflitto contro il terrorismo si sta svolgendo su due piani, uno più interno di natura socio-culturale e un altro di natura militare che si percepisce sul teatro siro-iracheno. Daesh sta perdendo la guerra sul piano militare convenzionale in seguito all’intervento bellico russo e americano, facendoci peraltro capire che l’ultimo attentato sia stato anche l’espressione della loro ansia e disperazione per continuare ad attrarre ideologicamente le reclute occidentali. Ciò nonostante, i jihadisti rimangono una forza relativamente ben finanziata, armata ed organizzata che continua ad operare con diversi strumenti di comunicazione, ma serve sottolineare che la “guerra” di Daesh è prettamente collegata al desiderio di dominare il mondo musulmano. L’occidente è dunque uno scenario secondario per arrivare a questo obbiettivo, essendo loro stessi consapevoli che prevalere sui valori occidentali è impossibile se non con metodi suicidi sperando in una nostra reazione altrettanto violenta.
Tenendo questo in mente, allora si dovrebbe cercare di creare un unità politica con gli altri musulmani moderati—come si riuscì a fare durante la prima Guerra del Golfo—sia all’interno che al di fuori dell’Europa, per far fronte ad un problema intestino alla fede islamica. Come propone Sergio Romano, è un metodo che potrebbe rivelarsi efficace per confrontare Daesh, anche perché da tempo la comunità islamica in Europa chiede un avvicinamento di questo genere con i cristiani. Un’alleanza ragionevole tra paesi delle due religioni in una coalizione anti-ISIS sarebbe anche un’opportunità per riavvicinarsi con i musulmani, i quali conoscono meglio e hanno risentito più di noi quella realtà mostruosa.
Se si vuole dare una risposta altrettanto importante al tumore che è Daesh dobbiamo riconsiderare le nostre priorità. Se l’ISIS viene finanziato dai paesi del golfo per condurre una guerra geopolitica a procura, l’occidente deve porsi la domanda se gli conviene veramente mantenere dei “buoni rapporti” e mantenere una visione della politica interazionale basata esclusivamente sugli interessi energetici. E sa la risposta fosse sì, allora le nostre lacrime di fronte a un massacro come Nizza o Bruxelles sarebbero di tristezza o di ipocrisia? Il fatto più preoccupante per noi Europei non è solo la Siria e zone limitrofe, ma i Balcani. L’intera regione Balcanica, ha ricevuto somme miliardarie dalle petro-monarchie arabe per la costruzioni di moschee e centri di studi islamici per diffondere i loro principi wahabbisti proprio alle nostre porte. Ma come dicevano i romani: “Pecunia non olet”. Se il quadro è disposto in tale maniera penso che sia meglio stringere accordi con Putin e ridare via a delle serie relazioni diplomatiche con l’Iran che si è da subito impegnato alla lotta contro Daesh. In questa ottica servirebbe anche rivalutare la posizione di Assad e il desiderio di abbatterlo a tutti i costi; una cosa voluta dai paesi sunniti Arabia Saudita e Turchia, ma che di fatto ha portato gli occidentali ad appoggiare una linea che indirettamente sostiene Daesh. Ecco, ora serve scegliere il minore dei mali. Se non cambierà l’orientamento Europeo e mondiale nei confronti dei Paesi e dei gruppi che possono aiutarci a risolvere questo problema tremendo, continueremo a vivere nel cordoglio.