Il centrodestra italiano versa nelle peggiori condizioni elettorali da quando è nato, in quell’ormai lontano 1994 quando Silvio Berlusconi, nel famoso messaggio a reti unificate, ha lanciato la sua candidatura e la nascita del suo partito, Forza Italia. Vinse alle prime elezioni grazie ai meccanismi della nuova legge elettorale, il Mattarellum, che aveva appena sostituito il proporzionale puro della prima repubblica, con candidature comuni insieme a Bossi, Fini e al Centro di Casini e Buttiglione. Vinse di nuovo nel 2001, dopo cinque anni di governi di centrosinistra, con un’ampia maggioranza ma sempre con la stessa coalizione: Berlusconi, Bossi, Fini e Casini. Nel 2008 poi, dopo soli due anni di un disastroso governo Prodi, ottenne, con il solo Pdl, oltre il 35 % dei consensi e, grazie al Porcellum, la più ampia maggioranza mai avuta nella storia repubblicana.
Poi però è arrivata la crisi finanziaria del 2008 e soprattutto quella dei debiti sovrani del 2011 che spazzarono via il suo governo, in concorso con la dissidenza di Fini, per issare Monti a Palazzo Chigi. Da allora il centrodestra ha cessato di esistere: il Pdl appoggiò prima l’esecutivo Letta subito dopo le elezioni del febbraio 2013 mentre la Lega e Fratelli d’Italia rimasero all’opposizione, poi uscì dal governo, con la defezione di Alfano e una nuova scissione, infine il ritorno a Forza Italia. Ad oggi il campo dei sedicenti moderati è più frazionato che mai: Ncd e Udc, unitisi in Area popolare, sono al governo ma elettoralmente sono ai minimi termini, Forza Italia è fuori dall’esecutivo e dalla maggioranza, anche Lega e Fratelli d’Italia sono all’opposizione ma più che mai distanti da FI. E intanto la lotta politica si è ridotta ad uno scontro fra il Pd di Matteo Renzi e il M5S. Proprio in questo contesto sta provando a insinuarsi una proposta politica che potrebbe dare nuova forza a uno schieramento che ormai non conta più quasi nulla: la discesa in politica di Stefano Parisi, già candidato a sindaco di Milano di un centrodestra unito e sconfitto per poco da Giuseppe Sala. L’ex city manager di Milano sotto la giunta Albertini ha infatti deciso, in accordo con il leader di Forza Italia, di avanzare una proposta politica che sia alternativa al centrosinistra fuggendo sia dalla retorica a cinque stelle, sia dall’estremismo post-padano di Matteo Salvini.
Il progetto è quello di costruire una coalizione che possa tornare a competere al livello politico con gli altri due schieramenti, fondando una nuova piattaforma basata su principi liberali e popolari, un centrodestra in linea con il Ppe quindi. Le sue posizioni su alcuni temi sono già molto chiare: sul referendum ad esempio ha annunciato di votare No, motivando questa sua scelta con la proposta di un’Assemblea costituente che lavori in parallelo al Parlamento per redigere una nuova carta costituzionale di stampo federalista e con più autonomia del Governo. Su questo però iniziano i primi attriti con i possibili alleati leghisti: Matteo Salvini è per il No e spingerà per le dimissioni di Renzi in caso di sconfitta referendaria, Parisi ha invece sostenuto che per lui Renzi non dovrà dimettersi ma dialogare per una riforma costituzionale condivisa. Il presupposto per una piattaforma comune a tutto il centrodestra sembra però trovare ostacoli di discreta entità: il primo aspetto riguarda i rapporti di forza nella coalizione. Se Fratelli d’Italia deve rassegnarsi ad essere un “piffero di accompagnamento”, parafrasando Montanelli, Lega e FI si giocano la leadership alla pari e occorrerà vedere chi sarà il partito traino fra i due: è innegabile che la Lega è ai massimi storici in questo momento, ma la retorica su euro e immigrazione di Salvini è ormai noiosa, tanto che il leader padano ha ricevuto una sonora bocciatura da Umberto Bossi; questo induce a credere che la Lega è arrivata alla frontiera delle possibilità elettorali, senza chanche di ulteriore crescita.
Al contrario Forza Italia è ai minimi storici, eppure un bacino potenziale di recupero c’è ed è anche molto ampio: in questi anni di governo il centrodestra ha mancato completamente ciò che aveva promesso, dalla riduzione del debito al taglio della spesa pubblica, dalla riforma delle pensioni (c’è voluta Elsa Fornero) alla semplificazione e riduzione fiscale, dalla riforma del lavoro (riuscita solo a Matteo Renzi ma incompleta) a quella della giustizia e della pubblica amministrazione. Tutti questi fallimenti hanno fatto sì che un elettorato sia fuggito davanti alle bestialità compiute da Tremonti e compagnia. Proprio per questo però l’impresa di Parisi può riuscire: c’è ancora molto da fare in Italia. Gli ultimi vent’anni sono stati sprecati nell’occuparsi delle vicende personali del Capo trascurando le necessità vere del Paese. Occorre solo liberarsi di alcuni fardelli, come l’affidare sempre e solo a ex-socialisti i dicasteri economici e metterli nelle mani di chi può davvero dirsi portatore di istanze liberali, e in Italia ne sono in tanti.
A cura di Michelangelo Borri