Caro Giacomo,
Ti do del tu, spero non ti dispiaccia. Ti scrivo per un motivo preciso: questa storia del pessimismo non mi ha mai convinto. Ma cominciamo dall’inizio.
Ti conosciamo tutti come un grande poeta, certo, ma l’immagine che abbiamo di te è di un giovane infelice, solitario, incompreso, quello dello studio “matto e disperatissimo”. La tua ricerca filosofica sul pessimismo deriva da una profonda infelicità personale. Un’adolescenza difficile, in cui ti sei sentito escluso dal mondo. A quattro anni parlavi varie lingue e traducevi Omero, studiavi i in una biblioteca ricchissima, dove hai passato interi anni rovinandoti la salute. A tutto questo si è aggiunta la tua delicatissima sensibilità, le sofferenze fisiche, le delusioni politiche ed amorose.
Partendo da questa personale sofferenza hai cominciato ad interrogarti sempre di più sulla condizione umana, arrivando alla visione del pessimismo storico: gli uomini furono felici soltanto nell’età primitiva, quando vivevano allo stato di natura e godevano di quella spontanea e libera immaginazione che permetteva loro di trovare conforto al dolore. Poi vollero uscire da questa beata ed istintiva innocenza e, servendosi della ragione, si misero alla ricerca del vero. Approfondendo la tua riflessione sul dolore arrivi a dimostrare che la causa di esso è proprio la natura, perché essa ha creato l’uomo con un profondo desiderio di felicità, pur sapendo che non l’avrebbe mai raggiunta. E così il tuo diventa un pessimismo cosmico, perché investe tutte le creature, uomini e animali, indistintamente infelici.
Definiamo la tua visione del mondo “pessimista”. Le definizioni possono essere pericolose: vogliono sintetizzare e semplificare, e nel farlo c’è sempre il rischio di appiattire, come in questo caso, un pensiero molto più complesso. Dare delle etichette ci rende ciechi, incapaci di guardare il mondo con sguardo critico e profondo. Ho scelto di andare oltre; ho voluto conoscerti e incontrarti da sola, in quella solitudine che per anni è stata tua amica. “Pessimismo” ci fa pensare ad una visione rassegnata e dolorosa della vita, in cui svanisce ogni scintilla di speranza. Fa pensare a qualcosa di statico, fermo, incapace di reagire. Nei tuoi versi invece, percepisco tutt’altro che rassegnazione. Sento movimento, dinamismo, ribellione. Se fossi davvero pessimista o rassegnato smetteresti di cercare, smetteresti di chiederti il perché di tutta questa sofferenza. La tua invece è una ricerca continua, struggente e affannosa, guidata dall’insaziabile desiderio di spiegare l’esistente, di trovare un senso al dolore. Il tuo è un pensiero che si interroga e non trova riposo. Ed anche quando dici “la vita a me è male”, dichiari in qualche modo di amarla; perché se la disprezzassi davvero essa ti sarebbe indifferente. Sono convinta che il fatto di sentire così tua la tragicità della condizione umana riveli in te un desiderio implacabile di amare, sentire, partecipare.
Tu sei il poeta della contraddizione. La tua concezione materialistica del mondo, in cui l’essere umano è creatura debole di fronte alla natura, si scontra con un’innata aspirazione dell’uomo all’infinito, al superamento di quei limiti che la stessa natura gli impone. Francesco De Sanctis, famoso critico letterario, evidenzia come il tuo pessimismo filosofico è contraddetto dalla poesia, produzione genuina e profonda: “il Leopardi filosofo, che odia la vita, con la sua poesia ce la fa amare”. Nella tua poesia affiorano sentimento ed illusioni, in contrasto con la razionalità delle tue riflessioni filosofiche. Sostiene De Sanctis: “Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. […] E, mentre chiama «larva» ed errore tutta la vita, non sai come, ti senti stringere più saldamente a tutto ciò che nella vita è nobile e grande”.
Il tuo è un pensiero complesso, contraddittorio, ma proprio per questo vero, umano. Rappresenti la complessità che ogni uomo si porta dentro; quella parte che soffre ma non si arrende, perché la spinta della vita è più forte. Quella parte che si sente prigioniera del suo corpo e vorrebbe liberarsi verso l’infinito. Quella parte di noi che continua ad amare la vita anche quando brucia, oscillando tra gioia e disperazione, tra sofferenza ed inarrestabile speranza. Tu sei, ancora prima di essere poeta, uomo. Ti mostri autenticamente, nelle tue fragilità e nelle tue domande senza risposta, ed è forse per questo che ognuno di noi ti sente così vicino.
Ti immagino a 20 anni pronto a fuggire da Recanati. Immagino la tua delusione quando, andando a Roma, ti scontri con un modo di pensare non poi così diverso da quello del tuo “natio borgo selvaggio”. Forse allora hai capito che la prigione non è fuori, ma è dentro: è quella solitudine esistenziale con cui ognuno di noi deve imparare a convivere. La solitudine tu l’hai conosciuta bene. Ma sappi che attraverso di te ognuno di noi si è sentito meno solo nel rendersi conto che sì, siamo tutti immersi nel dolore, ma siamo vivi e non smetteremo di cercare. Per questo, grazie.
Con affetto ed amicizia,
Marianna