WOODY NON INVECCHIA (CAFE’ SOCIETY)

WOODY NON INVECCHIA (CAFE’ SOCIETY)

Quando ho visto in tv il messaggio promozionale “CINEMA2DAY”, l’iniziativa promossa dal Mibact-Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo- per avvicinare il pubblico al cinema,  che consente, ogni secondo mercoledì del mese, di acquistare al costo unitario di soli 2 euro, tutti i film in programmazione presso i cinema italiani aderenti, ho deciso di prendere al volo questa occasione.

Per motivi prettamente logistici, ho scelto il caro doppia sala vicino casa mia, rinunciando però a una gamma più vasta di film, orientando la scelta su  Cafe Society piuttosto che su Pets.

“Ah, non ho mai cambiato idea riguardo la morte: sono ancora fortemente contrario”. Credo che basti questa dichiarazione, rilasciata sei anni fa a Cannes, dove ormai è di casa, per riassumere l’essenza del personaggio di Allan Stewart Konigsberg, in arte Woody Allen.

Il regista newyorkese, sempre pronto a far sorridere e ad affrontare temi tutt’altro che leggeri,  continua a dimostrare dopo quasi trent’anni di psicoterapia e un’intensa produzione cinematografica con una media di un film all’anno, di non volersi affatto fermare e proprio a Cannes ha presentato fuori concorso il suo ultimo film, Café Society, uscito nelle sale italiane il 29 settembre.

Dopo il successo di Midnight in Paris, premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale 2012, Allen è ritornato in quella dimensione a lui così cara, gli anni trenta, per raccontarci la storia di Bobby, (Jesse Eisemberg), trasposizione dello stesso regista, che da New York si trasferisce dallo zio Phil (Steve Carrell), agente cinematografico a Los Angeles per tentare la strada del successo nella nascente industria del cinema.

La permanenza in California sarà occasione per conoscere e immergersi nella frivola e magica atmosfera della “cafè society” di Hollywood, delle sue ville senza tramonti e delle scintillanti serate di gala, popolate da produttori di successo e divi del cinema in bianco e nero.

La storia d’amore tra Bobby e Vonnie (Kristen Stewart), segretaria dello zio, che così teneramente era sbocciata, è destinata a interrompersi per via del legame che intercorreva precedentemente tra lei e lo zio Phil.

Dopo qualche tempo i due giovani, costruitasi ormai una nuova esistenza di successo, si rincontrano a New York e hanno modo di chiarirsi sulle scelte compiute, con la riflessione che si sposta sulla natura dei sogni che entrambi possedevano e sul loro significato. Ricordi e rimpianti si equivalgono e un certo languore manifesta qualcosa di irrisolto a livello personale.

A livello tecnico è rilevante il fatto che si tratti del primo film di Allen, partigiano della celluloide assieme a Tarantino, girato in formato digitale.

A dominare sulla scena sono le luci, sia che si tratti di un suggestivo tramonto sul Pacifico, sia di una romantica alba sull’Atlantico; eccellente in tal senso il lavoro svolto dal “nostro” Vittorio Storaro, direttore della fotografia, già premio Oscar per Apocalypse Now, Reds e L’ultimo imperatore.

Le scelte musicali e stilistiche risentono dell’inconfondibile stile di Woody Allen, dall’apertura del film con la scritta a carattere “Windsor bianco su sfondo nero”, senza effetti di scorrimento, fino alle scene più crude ritraenti la malavita newyorkese, sempre con musica jazz di sottofondo, vera e propria colonna sonora del periodo.

Sorvolando sull’eccellente standard cui il doppiaggio italiano ci vizia, la scelta del cast -con Eisemberg che torna a lavorare con Allen dopo “To Rome with love”, Stewart, liberata dalla pesante eredità di Twilight e fresca vincitrice del premio Cèsar, e un mai banale Carrell, già testato dal regista in “Melinda Melinda” e reduce da un’ottima prova ne “La grande scommessa”- propone il classico trio Lui-Lei-L’altro che ha fatto la fortuna del genere e dell’autore, relegando Blake Lively, conosciuta dai più per “Gossip girl”, ad un minutaggio limitato.

Verrebbe spontaneo un  paragone con il premiato Midnight in Paris. In entrambi i film il protagonista si ritrova a vagare fra due distinti scenari: in Midnight in Paris, la Parigi attuale e quella della lost generation, in  Café society le due città sulla east and west coast; l’uno conosciuto e confortante, ma  a tratti stretto e opprimente, l’altro sconosciuto e misterioso, ma oltremodo affascinante e accattivante.

In questi due film  le donne, che accompagnano il protagonista durante la sua permanenza in un determinato scenario, hanno un ruolo fondamentale e discendono dalle figure femminili già portate in scena da Diane Keaton e Mia Farrow.

L’inevitabile epilogo di entrambi i film porterà ad una separazione che lascerà interprete e  spettatore a riflettere. A differenza di Midnight in Paris, però, in Café Society la sensazione finale è più spiacevole. Infatti dopo la separazione dei protagonisti non si ha l’impressione del lieto fine: nonostante il successo di entrambi, i destini di Bobby e Vonnie si dividono sullo sfondo del caratteristico capodanno nella Grande Mela, ma nessuno dei due potrà fare a meno di ripensare all’altro, proprio come in un sogno.

 

A cura di Leonardo De Marco

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