Il 10 ottobre è la giornata mondiale contro la pena di morte, istituita nel 2003 dalla Coalizione Internazionale contro la pena di morte. La Coalizione, fondata nel maggio del 2002, è formata da più di 150 associazioni, governi locali, sindacati, ONG (tra cui Amnesty International), i quali impegnano le loro forze e risorse con l’obiettivo finale di ottenere l’abolizione universale della pena capitale. Ad oggi, infatti, sebbene 140 paesi (oltre i due terzi del mondo) abbiano abolito la pena di morte, per legge o prassi, questa purtroppo resta ancora in vigore in 58 paesi.
Il primo Stato al mondo ad abolire legalmente la pena di morte fu il Gran Ducato di Toscana nel 1786 con l’emanazione del nuovo codice penale, che venne fortemente influenzato dalle idee di illustri pensatori, primo fra tutti Cesare Beccaria. Quest’ultimo nel libello “Dei delitti e delle pene” si espresse contro la pena di morte, sostenendo l’assurdità e contraddittorietà di quest’ultima, con cui lo Stato, per punire un delitto, ne commette uno a sua volta:
« Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio.»
Tuttavia, la condanna di Beccaria, pur nella sua portata storicamente innovativa, non era espressa in termini assolutistici, ma gettò comunque le basi per l’inizio di una importante riflessione su tale tema.
Siamo ormai giunti alla 14esima giornata mondiale contro la pena di morte, che quest’anno denuncia in particolare il ricorso da parte di taluni stati a questa pratica come deterrente per i reati di terrorismo. Infatti si è registrato negli anni recenti un notevole incremento del suo utilizzo per perseguire tale scopo, sulla base di procedimenti inesistenti o viziati. Amnesty International evidenzia come lo scorso anno almeno 20 paesi abbiano emesso o eseguito condanne a morte per tale categoria di reati. Al 30 giugno 2016, un numero di persone non inferiore a 121 è stato messo a morte per atti di “terrorismo” in 6 paesi: Afghanistan (6), Arabia Saudita (almeno 47), Bangladesh (4), Iraq (almeno 55), Pakistan (6) e Somalia (almeno 3).
La posizione del diritto internazionale rispetto alla pena capitale è rivolta al perseguimento, da parte di tutti gli stati, della completa abolizione della pena di morte, sebbene l’uso di questa sia ancora consentito in casi eccezionali e limitatamente ai reati più gravi.
Un rilevante capitolo per la pena di morte è stato scritto il 18 dicembre 2007, giorno in cui l’Onu ha approvato una importante risoluzione su iniziativa italiana per la moratoria universale della pena di morte, ossia per una sospensione internazionale della sua applicazione, ferma restando la facoltà di mantenerla nei propri istituti giuridici e, conseguentemente, la possibilità di tornare ad applicarla senza modifiche legislative. La differenza tra moratoria ed abolizione è che quest’ultima, al contrario, comporterebbe un’assoluta rimozione della pena capitale dalle legislazioni nazionali e sarebbe più invasiva nei confronti della sovranità dei singoli stati e, quindi, di più difficile realizzazione al momento, visto ancora l’alto numero di stati favorevoli o indecisi.
Il dibattito sul sì o no alla pena di morte è ancora fortemente acceso, con posizioni radicalmente opposte.
I favorevoli al sì sostengono che si tratti di un efficace deterrente e che, vista l’esemplarità della pena, prevenga che vengano commessi crimini passibili di essere puniti con pena di morte per paura che questa venga applicata.
Per i sostenitori della teoria retributiva sulla funzione della pena, ad esempio, questa costituisce giustizia redistributiva, andandosi a configurare nell’ambito della giustizia morale.
Altri punti cui ricorrono coloro che supportano la pena di morte sono la riduzione dei costi che derivano dal mantenimento dei condannati all’ergastolo e l’eliminazione di altri eventuali ed ulteriori rischi per la società in caso di recidiva.
Mentre per i sostenitori del no, la pena di morte è una punizione crudele, inadeguata e non rispettosa del diritto alla vita, garantito e riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948. Viene considerata da molti come un omicidio premeditato da parte dello Stato, che però non sottostà alle sue stesse leggi che mirano a punire e reprimere tale reato. Si ritiene, inoltre, che sia sintomo e manifestazione di una cultura basata sulla violenza e che l’esecuzione di questa da parte di uno Stato non sia altro che dimostrazione dell’attinenza alla violenza da parte dello Stato stesso. Come ha affermato James Lynch, vicedirettore dei Programmi globali di Amnesty International:
“… l’omicidio di stato, quale è la pena di morte, non affronta le cause alla base della violenza. Piuttosto, aumenta l’ingiustizia e la sofferenza e genera un nuovo ciclo di violenza, senza fornire giustizia alle vittime”.
Ed infatti, proprio secondo alcuni studi, il tasso di omicidi è maggiore negli Stati dove questa pena viene applicata. La pena di morte nega qualsiasi possibilità di riabilitazione del condannato, arrivando a non riconoscere l’umanità della persona che ha commesso un crimine. Lo stesso articolo 27 della nostra Costituzione recita al terzo comma:
“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Viene qui affermato il principio del finalismo rieducativo della pena, che mira sì a reprimere il reato e ad evitare che questo venga ricommesso, ma in un’ottica rieducativa e di correzione comportamentale, tale da rendere il soggetto adeguato alle regole giuridiche della comunità, con la possibilità di un progressivo reinserimento sociale. Al fine di evitare casi di recidiva bisognerebbe fare un’opera di revisione delle procedure per la libertà condizionata ed avviare un serio monitoraggio psicologico dei detenuti per tutta la durata della permanenza in prigione ed anche una volta conclusasi la fase detentiva, con incontri via via più saltuari con il trascorrere del tempo.
Personalmente vedo una profonda e smisurata inutilità in una pena che vuole insegnare a non uccidere uccidendo, che nega la possibilità del cambiamento e della redenzione delle persone, in cui lo Stato si pone come giudice e giustiziere.
È impossibile cercare di difendere la vita sopprimendo una vita.
#NoDeathPenalty
A cura di Chiara Vittoria Turtoro