L’eterno outsider: chi è Donald Trump?

L’eterno outsider: chi è Donald Trump?

L’8 novembre del 2016 è una data storica per molti aspetti: si chiude l’era di Barack Obama, il primo presidente nero degli Stati Uniti d’America; si candida alla presidenza colei che potrebbe divenire la prima donna a ricoprire tale carica, Hillary Clinton; i repubblicani candidano Donald Trump.

Per chi avesse profetizzato uno scontro fra la donna politica per eccellenza, colei che ha occupato la seconda carica dello Stato nel sistema politico americano – il Segretario di Stato –, e l’imprenditore più chiacchierato dell’altra sponda dell’Atlantico sarebbe giunto in poco tempo il titolo di visionario, di folle o semplicemente di ironico. La stessa reazione di Doc quando Marty Mcfly gli comunica che il presidente degli Stati Uniti nel 1985 sia Ronald Reagan.

Infondo, entrambi erano personaggi estranei al mondo della politica: Reagan era un attore, Trump è un imprenditore – con alle spalle dubbi sulla propria gestione del denaro dell’azienda –. Entrambi, oltretutto, aderirono prima al Partito Democratico per poi passare allo schieramento repubblicano.

Ronald Reagan era l’uomo dell’Impero del Male, della Russia nemica a tutti i costi, del “mondo libero” che combatteva contro l’oppressione del comunismo sovietico. Non fu un rivoluzionario, bensì l’emanazione di uno spirito prettamente americano che predicava il mantra “Il Governo non è la soluzione al problema. Il Governo è il problema” – cosa su cui anche Trump sarebbe d’accordo, ma che va contestualizzata in maniera più accurata –. Reagan prese un partito repubblicano appiattito su se stesso e lo riportò a vincere, assicurandosi un sostegno della classe dirigente che rimase per anni, anche dopo alla sua morte: il giornalismo coniò la definizione di “edonismo reaganiano”, dottrina fondata l’individualismo e sul liberismo, che pervase nuovamente il Partito Repubblicano spazzando via le correnti più moderate del “conservatorismo compassionevole”.

In seguito la leadership repubblicana fu tenuta da numerosi personaggi, primi fra tutti i Bush: stirpe di petrolieri, educati a Yale, membri dell’élite economica e, soprattutto, culturale degli Stati Uniti. Nel bene e nel male fu l’ultima leadership forte del Partito Repubblicano, che da allora dovette affrontare il carisma indiscusso di Barack Obama, formidabile comunicatore prima ancora che uomo politico – per alcuni si limitava esattamente a questo –. La campagna elettorale del 2012 vide la candidatura di Mitt Romney, dirigente d’azienda mormone ed ex governatore del Massachussets, contro Obama, il quale risultò vincente anche grazie ai risultati ottenuti a seguito dell’accordo Fiat-Chrysler sostenuto dal Governo federale.

Oggi, dal politico d’esperienza Romney torniamo nuovamente ad un outsider, un homo novus che non ha mai ricoperto cariche pubbliche. Da questo punto di vista, Donald Trump e Ronald Reagan sono molto simili. Ciò che li differenzia di più, a ben vedere, è il loro linguaggio: Reagan è un comunicatore saldo, che attacca l’Unione Sovietica ed il Governo federale come entità ma non si cimenta in commenti aggressivi contro le donne, i messicani e le altre categorie che Donald Trump ha colpito durante la sua campagna.

Che sia semplicemente una questione di gusto? Non proprio: Donald Trump ha costruito su di sé l’immagine di un uomo che si è fatto da sé – messaggio promosso dalla stessa conduzione di The Apprentice dal 2005 al 2014 –, che possiede una propria fortuna, che può permettersi le esternazioni di cui si è fregiato durante le primarie repubblicane perché “non ho tempo per il politicamente corretto”. Dietro l’evidente arroganza dimostrata dal tycoon (traslitterazione inglese del termine giapponese “taikun”, titolo traducibile con “grande signore/principe”) esiste un messaggio politico ben preciso: “io non sono un politico”. Questo è ciò che Donald Trump vuole comunicare al proprio elettorato. “Io non sono un politico. Faccio affari, risolvo problemi”. L’intenzione è quella di costruire un personaggio che non sia riconducibile al modello del “politico di professione”, come poteva essere Mitt Romnew che, sebbene fosse un dirigente, aveva avuto esperienze pregresse come governatore. Il valore aggiunto, qui, è l’ “inesperienza”, da non confondere con l’ “impreparazione”. Non ho avuto esperienze di politica, quindi non sono come “loro”. Ecco cosa vuole comunicare Trump, e lo comunica perfettamente: le soluzioni che propone sono basate su ragionamenti semplici, privi di un apparato teorico di riferimento e delle grandi argomentazioni fornite dall’avversaria Hillary Clinton – che nei dibattiti è risultata sempre nettamente più preparata e puntuale nelle risposte –.

La sua politica è per molti versi rozza, incapace di comprendere la complessità della realtà circostante. Ciò, tuttavia, non sembra essere uno svantaggio per lui, che fa della sua indole “pragmatica” il suo cavallo di battaglia. La risposta della controparte è un’unanime accusa di populismo, parola particolarmente insidiosa per chi studia politologia, dal momento che possiede molteplici sfaccettature. Limitiamoci a considerare la definizione del dizionario Treccani:

atteggiamento ideologico che, sulla base di principî e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi. Con sign. più recente, e con riferimento al mondo latino-americano, in partic. all’Argentina del tempo di J. D. Perón (v. peronismo), forma di prassi politica, tipica di paesi in via di rapido sviluppo dall’economia agricola a quella industriale, caratterizzata da un rapporto diretto tra un capo carismatico e le masse popolari, con il consenso dei ceti borghesi e capitalistici che possono così più agevolmente controllare e far progredire i processi di industrializzazione.”

La chiave di tutto è esattamente nel concetto di “rapporto diretto” fra una guida carismatica ed i propri sostenitori. Il leader coincide con la chiave di volta di tutto il partito politico, il quale diviene la macchina con cui si organizza il consenso verso lo stesso capo carismatico. Tutto è incentrato sull’unico individuo che porta le istanze del popolo e che, per necessità di cose, deve rispecchiarlo nel linguaggio che adopera. Abbandonando il linguaggio dei politicanti di professione, egli si fregia del titolo di interprete della volontà popolare che rimane inascoltata dalle élite, troppo impegnate ad organizzare il discorso politico secondo le loro priorità ed interessi.

Apparentemente quanto affermato può sembrare una semplice apologia di un fenomeno politico, ossia il populismo, da estirpare, ma si tratta di conclusioni a cui il sociologo Christopher Lasch era arrivato già negli anni Novanta – quasi trent’anni fa –: nelle argomentazioni del suo saggio La ribellione delle élite (sottotitolato “Il tradimento della democrazia”, edito Feltrinelli 1995) egli descrive esattamente il processo accennato in precedenza, ossia l’appropriarsi da parte dei vertici economici e culturali di qualsiasi spazio politico esistente, in particolare quello prodotto dai mass media. All’interno di questo spazio “virtuale” – che però ha dei legami soffocanti con la realtà in cui viviamo, fino ad esserne quasi parte integrante – le élite culturali gestiscono la formulazione del dibattito pubblico, escludendo ciò che non è conforme alla loro visione del mondo orientata verso il globalismo, l’economia planetaria e ciò che è oltre i confini del proprio Stato nazionale. Le élite guardano al mondo intero come lo spazio in cui estendere il proprio desiderio, parlano di mobilità e di lavoro all’estero. Ciò che nascondono, però, è l’aspetto più drammatico del “progresso” da loro decantato: delocalizzazione, individualismo, dequalificazione professionale – sono pochi coloro che riescono a seguire il processo costante di ammodernamento economico e chi non ci riesce non ha possibilità di riconvertirsi, dal momento che molti lavori sono stati trasferiti in altri Paesi –.

L’élite, assieme a tutto ciò che essa rappresenta, è identificata con gli intellettuali, coloro che dipingono il mondo con il pennello della sofisticatezza per mascherare i danni prodotti dal sistema produttivo da loro stessi foraggiato e di cui, inevitabilmente, sono i padroni. È a coloro che sono dall’altra parte della barricata, coloro che hanno subito gli effetti collaterali della finanziarizzazione dell’economia che si rivolge Donald Trump: “basta intellettuali, adesso occorre agire”. Trump conquista il favore delle classi più basse, prima ancora che dei miliardari, proprio perché promette la reindustrializzazione, il ritorno delle fabbriche, dei posti di lavoro che nel mercato globale sono fuggiti dove le tutele lavorative sono più scarse. A chi, disilluso dai politicanti, si è avvicinato a lui ha promesso lavoro, il loro lavoro, quello che adesso è fuggito in Cina, Messico o Indonesia – solo per citarne alcuni –.

Come i suoi sostenitori, Donald Trump è un uomo estraneo alla politica, in particolare ai politici: fra i suoi critici più feroci ci sono il senatore John McCain, repubblicano candidato nel 2008 contro Obama; Mitt Romney, che conosciamo bene e che non ha mai espresso supporto al candidato ufficiale del Partito Repubblicano alle presidenziali del 2016; Paul Ryan, speaker della Camera dei Rappresentanti oltre che avversario di Trump nelle primarie del partito, il quale ha espresso il proprio appoggio nei confronti di Trump solo il 2 giugno 2016 – la nomination fu conferita il 26 maggio –; Bush senior, il quale ha dichiarato di voler votare per Hillary Clinton.

Trump è molte cose, ma sicuramente non è un politico. Proprio per questo piace ai suoi elettori. Proprio per questo è ancora più pericoloso: qualora non si riuscisse a colmare il divario esistente fra chi è parte dell’élite e chi, al contrario, è costretto a guardare da fuori, nessuna democrazia sarà al riparo dal divenire il mero intervallo fra un Governo forte e l’altro.

Non è di Governi forti che si nutre una democrazia, tantomeno di Governi delle minoranze. Forse è questo il più grande insegnamento che il popolo americano può tramandarci in questi giorni, in cui la democrazia americana vacilla e quella europea non gode di buona salute.

 

A cura di Riccardo Antonucci

 

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