Salvate il soldato Lee!

Salvate il soldato Lee!

“Non è il generale Lee, o giovani… È Robert Lee che passa in uno scuro abito borghese, un fuorilegge che annaspa presso il saliscendi, una voce che comanda in un sogno ove non sventola alcuna bandiera.”  

  

Il 13 agosto 2017 il consiglio comunale di Charlottesville, cittadina virginiana, ha deliberato la rimozione della statua del generale Lee dal parco cittadino, in seguito alle pressioni della National Association for the Advancement of Colored People, associazione per i diritti civili degli afroamericani. La decisione ha dato occasione a gruppi dell’estrema destra americana di radunarsi nella cittadina, ufficialmente per protestare contro la rimozione della statua. Per reazione, gruppi progressisti hanno intrapreso una contromanifestazione. La situazione è degenerata in scontri, nel corso dei quali una donna ha perso la vita. Il Governatore dello Stato ha dichiarato lo stato di emergenza, mobilitando la Guardia Nazionale. Le manifestazioni sono state sciolte e la statua rimossa il 19 agosto. Purtroppo, i fatti di Charlotteville hanno dato inizio ad una spirale di violenze in tutta l’America, in cui, oltre ai diritti e all’incolumità delle minoranze, rischia di andarci di mezzo anche la memoria storica. Personalmente non avrei niente da dire contro la rimozione del monumento a Robert E. Lee presso il parco di Charlotteville se egli fosse stato davvero quel che si dice un “suprematista bianco”, termine con il quale si indicano i militanti del National Socialist Movement, che ricalca di nome e di fatto l’ideologia nazista, verniciata con i simboli e le bandiere della Confederazione per appropriarsi di una legittimità politica che non merita, ma che sembra aver ritrovato nell’America di Donald Trump. Ma poiché Robert E. Lee non c’entra nulla con questa gente, mi permetto di esprimere il mio dissenso, affinché la sua memoria sia salva, almeno fra i pochi lettori di questo articolo, dall’uso che la parte peggiore dell’America ne sta facendo per fomentare l’odio razziale.   

Nato in una famiglia di piantatori della Virginia, Robert E. Lee, quarto figlio, non possedette schiavi se non in qualità di esecutore testamentario del suocero, il quale aveva prescritto la liberazione dei suoi schiavi entro e non oltre cinque anni dalla sua morte, volontà che Lee rispettò. Intraprese la carriera militare come una vocazione, non essendo adatto né agli affari né alla gestione di una piantagione. Al pari del suo degno avversario Ulysses S. Grant, combatté nella guerra contro il Messico, contribuendo alla definitiva liberazione del Texas e dei territori a nord del Rio Bravo dalla dittatura del generale Sant’Anna.

Contrario alla Secessione, quando scoppiò la Guerra Civile dovette scegliere quale fosse la sua patria: se gli Stati Uniti, nel cui esercito aveva servito per tanti anni, o la Virginia, dove avevano sede la sua famiglia e i suoi affetti. Scelse la Virginia: per essa combatté, vincendo più volte contro un nemico più numeroso e meglio equipaggiato. Sconfitto, rifiutò di appoggiare un’improbabile guerriglia anti-nordista, preferendo agire per la riconciliazione nazionale, ordinando ai soldati di tornare a casa e di ricostruire il Sud devastato dal generale nordista Sherman. Nel quadro della “Ricostruzione” promossa dal nuovo Presidente Andrew Johnson si preoccupò che fossero promosse politiche attive per l’occupazione non solo dei reduci confederati e dei proprietari espropriati, ma anche degli ex-schiavi, i quali, una volta liberati, “dovevano pur essere messi nelle condizioni di poter provvedere a sé stessi”. Promosse pure l’istruzione degli ex-schiavi, affinché diventassero responsabili di sé stessi e dunque davvero liberi. Divenuto presidente del Washington College, espulse quegli studenti colpevoli di violenze nei confronti di persone di colore (a quell’epoca, purtroppo, nasceva il Ku Klux Klan). Pagò cara la sua onestà e correttezza: espropriato di gran parte delle proprietà di famiglia, rimase anche escluso dall’amnistia generale fino al 1868, rimanendo, fino a tale data, privo della cittadinanza e quindi del diritto di voto. Soltanto nel 1970, un secolo dopo la sua morte, fu pienamente riabilitato. Eppure, dal momento in cui dovette firmare la resa, si adoperò per la pace tra Nord e Sud e tra le due razze che abitano il Sud. Certamente era anche figlio del suo tempo, non esente da colpe e pregiudizi, comuni invero alla maggioranza dei suoi connazionali. Ciononostante, egli dovrebbe costituire un esempio per molti ancor oggi: sacrificò la sua carriera, le sue proprietà e il suo orgoglio per il suo paese. 

Se quei cosiddetti suprematisti bianchi sono troppo ignoranti per sapere che Robert E. Lee li avrebbe disprezzati e allontanati, i loro oppositori non dovrebbero cadere nella mistificazione che quelli fanno della Storia: la vita riservò a Robert Lee un destino tragico, sia almeno lasciato riposare in pace.   

 

A cura di Antonio Fabrizi   

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