Intervista alla ginecologa e attivista Anna Pompili
Quasi quarant’anni sono trascorsi, ormai, dall’entrata in vigore della legge 194/1978. In un quadro in cui la media nazionale di obiettori di coscienza di attesta intorno al 70%, con picchi del 90 in alcune Regioni, l’accesso effettivo all’interruzione volontaria di gravidanza resta, però, ancora da garantire.
Ne abbiamo parlato con la Dott.ssa Anna Pompili, ginecologa e membro di A.M.I.C.A. (Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto https://www.amicacontraccezioneaborto.it/), un’organizzazione di operatori e operatrici sanitari impegnati nella battaglia per l’accesso all’aborto e per il libero ed informato esercizio di tutti i diritti riproduttivi.
È ormai di dominio pubblico la problematica legata alla mancata attuazione della legge 194. Facciamo però un passo indietro e torniamo al testo normativo: che bilancio possiamo fare della legge in sé, così come formulata quarant’anni fa?
Per rispondere a questa domanda è utile ripercorrere l’iter che portò alla promulgazione della legge. La 194 nacque grazie ad una campagna del periodico L’Espresso, ma all’esito fu il risultato di un compromesso raggiunto dalle varie forze politiche che intervennero nella sua formazione. Un compromesso – vale la pena sottolinearlo – spesso ipocrita: basti pensare all’obbligo della donna che voglia sottoporsi all’ivg di recarsi preventivamente da un medico perché questi ne attesti l’effettività della volontà. Spesso, parlando con le donne, mi sento ripetere da loro che la 194 riconosce il diritto all’autodeterminazione. Niente di più impreciso: l’autonomia decisionale è la prima componente negata, nel momento in cui la legge impone questo preventivo passaggio da un medico e poi obbliga le donne a prendersi sette giorni per “ripensare” alla propria scelta prima di poterla mettere in atto.
L’idea, insomma, è che la donna sia un’irresponsabile?
Esattamente. Il legislatore dà alla donna della stupida, la forza a rifletter bene prima di risolversi e addirittura pretende di poter stabilire in anticipo quanto tempo debba impiegare nel pensare alle proprie scelte. Pensiamo in parallelo alla legge francese. Nata praticamente nello stesso modo della 194, è stata però modificata ben tre volte, con una progressiva rimozione del periodo di ripensamento (dapprima ridotto a tre giorni e poi eliminato del tutto lo scorso anno, ndr): pian piano si è arrivati ad un pieno riconoscimento del diritto della donna di decidere di sé. In Italia, al contrario, il pensiero dominante continua a vedere le donne come soggetti emotivamente fragili (lo dice anche il Comitato Nazionale di Bioetica) e bisognose di una tutela. Lo conferma la legge nelle parti in cui obbliga il personale sanitario ad informare la persona di tutte le possibili alternative all’ivg e a darle dei “consigli” su come risolvere i suoi problemi: non è ammessa la possibilità che una donna possa decidere di interrompere una gravidanza per motivi che riguardano la sua vita, ma solo per questioni “socio-economiche”. Avere un figlio dovrebbe sempre essere la massima aspirazione di ogni donna: non sono ammesse, in definitiva, le scelte non riproduttive.
I dati sull’obiezione di coscienza sono agghiaccianti; in Molise, addirittura, c’è un solo medico non obiettore. Quale potrebbe essere una soluzione?
L’art. 9 della legge attribuisce questo diritto di sollevare l’obiezione di coscienza a tutto il personale sanitario (si badi bene: non solo ai medici, ma a tutto il personale, fino al portantino). Personalmente, questo diritto fatico a pensarlo corretto: non vedo perché un dipendente del servizio sanitario nazionale dovrebbe potersi astenere dal compiere parte del suo lavoro (un ematologo, per esempio, di certo non può rifiutarsi di effettuare trasfusioni). Il primo problema sta nel fatto che questo diritto non è normato: è sufficiente scrivere un foglietto volante e portarlo in direzione sanitaria. In secondo luogo, non è bilanciato col diritto delle donne. L’art. 9, teoricamente, un bilanciamento lo prevede: impone a tutte le strutture sanitarie che abbiano un reparto di ginecologia e ostetricia di espletare la procedura, anche tramite la mobilità del personale; per assurdo, persino il Gemelli dovrebbe assicurare alla donna il percorso verso l’ivg, quantomeno indirizzandola verso un’altra struttura. Questo purtroppo rimane solo sulla carta: in Italia – ce lo dice la ministra nella Relazione annuale al Parlamento sullo stato di applicazione della 194 – il 40% degli ospedali che per legge sarebbero tenuti ad applicare la 194 non ha un servizio ivg né garantisce il percorso.
Come vanno letti questi dati? È mai possibile che tutte queste obiezioni si spieghino alla luce di scelte etico-religiose o c’è qualche dato sommerso?
Tempo fa fu condotta un’indagine tra i medici delle altre specializzazioni: agli intervistati fu chiesto che scelta avrebbero preso davanti ad una richiesta di aborto, da ginecologi. Rispose che avrebbe sollevato obiezione una percentuale inferiore al 10%. È difficile, ora, pensare che tutti i religiosi del mondo della medicina vadano a finire nell’ambito della ginecologia; è evidente, allora, che almeno un 50% prende questa scelta non già per motivi etici, ma per ragioni di convenienza, per fare più facilmente carriera o semplicemente per evitare quella che alcuni pensano come una “rottura di scatole”. Di recente, parlavo con un amico che mi diceva che, pur essendo lui ateo, non praticherebbe mai una ivg perché per lui sarebbe come uccidere. Ecco, per me fare questo lavoro non comporta alcuna sofferenza, perché mi è ben chiaro cos’è una vita umana e quand’è che comincia. Questa competenza mi consente di non far danno alle donne con cui lavoro: se loro si presentano da me terrorizzate all’idea di star per commettere un omicidio, è mio compito spogliarle di questa nozione terribile e infondata del peccato, dell’assassinio.
Non dovrebbe essere questo il ruolo degli psicologi che lavorano nei consultori?
Purtroppo c’è un problema nella formazione del personale. Mi è capitato addirittura di sentir dire ad una psichiatra: “Signora, lei deve elaborare il lutto.” Capite bene che significa una frase del genere: se c’è un lutto da elaborare vuol dire che hai ammazzato qualcuno. A volte certe idee non vengono nemmeno comunicate esplicitamente, basta il linguaggio non verbale a trasmetterle. Spesso il non obiettore fa più danni dell’obiettore: il secondo è chiaro, il primo può confondere.
Parliamo di aborto farmacologico. È una bislacca peculiarità italiana quella di somministrarlo solo in regime di ricovero ospedaliero? È una scelta che risponde ad una particolare visione del mondo?
La metodica farmacologica è stata introdotta in Francia e Cina nel 1989; dal 2004 in Francia si è prevista la possibilità della somministrazione ambulatoriale ed oggi la procedura è affidata ai medici di famiglia, essendosi evidenziata un’assenza di complicazioni tali da richiedere l’intervento di un ginecologo. In Italia, la RU486 è stata portata per la prima volta nel 2005 a Torino da Silvio Viale in via di “sperimentazione” e dal 2009 è estesa al resto del paese (seppur manchi ancora una completa copertura delle regioni). La donna, che deve semplicemente prendere due pasticche a distanza di due giorni, è trattenuta in ricovero ordinario in ospedale per almeno tre giorni, fino alla completa espulsione, il che ci costa all’incirca 1200 euro per ogni aborto. Fanno rabbia le affermazioni della ministra, che richiama il personale alla “appropriatezza delle prestazioni” e poi ci obbliga ad occupare per tre giorni un posto letto senz’alcun motivo valido (complicazioni gravi si attestano su un incremento dello 0.02-0,04%, ndr). Basti pensare al fatto che l’aspirina ha causato talvolta emorragia gastrica: è come se ricoverassimo tutti quelli che devono assumere un’aspirina…! Il problema – ci dicono loro – è che questa modalità abortiva rende troppo “facile” il ricorso all’ivg. Non essendoci alcuna motivazione scientifica, è chiaro che queste scelte legislative sono frutto di una paura: a spaventare è la libertà delle persone di decidere di sé.
Uno Stato con una simile visione in tema di aborto, in linea di principio, dovrebbe incoraggiare al massimo il ricorso alla prevenzione, alla contraccezione. Com’è possibile, allora, che siano sempre meno i contraccettivi rimborsabili e che l’educazione sessuale sia così scarsa?
A dirla tutta, siamo in uno stato confessionale. Questo significa che la salute riproduttiva ottiene un riconoscimento soltanto se una donna decide di fare un figlio; se proprio il singolo non riesce a “contenersi” e decide di avere rapporti non finalizzati alla procreazione, è affare suo, è un problema privato: lo Stato se ne chiama fuori. L’assurdo è tutto qui: il SSN è tenuto a fornire gratuitamente l’aborto ma si rifiuta di contribuire alle spese per la contraccezione, perché non vuole ammettere pubblicamente di favorire i rapporti prematrimoniali. Di contraccezione non si parla ad alta voce, perché la finalità naturale di donne e coppie è fare figli: ce l’ha detto chiaramente la ministra, che ha organizzato il Fertility day e parla di “primato della maternità”. In questo panorama, sta a noi operatori, che stiamo combattendo una battaglia per ottenere la gratuità dei contraccettivi almeno per le fasce deboli della popolazione, fare la “goccia che scava la pietra”.
A cura di Carmencita Tuccillo