Prescindendo dalle diverse opinioni maturate da ciascuno di noi sui risultati dell’ultima tornata elettorale, ritengo sia opportuno mettere in evidenza uno dei temi politici emersi più chiaramente in queste ultime settimane. Tema, questo, che a ben vedere è la declinazione elettorale di un vero e proprio problema storico di lunghissimo periodo, incredibilmente complicato e di difficile soluzione: la radicale crisi della sinistra.
Partiamo da un veloce colpo d’occhio dei risultati quantitativi delle maggiori forze politiche in campo. L’arco parlamentare si presenta essenzialmente tripartito, ma le tre fette non sono affatto fra loro equivalenti. Vistosa la sconfitta di tutto il centro-sinistra (la coalizione guidata dal PD è al 18,7%), tanto quanto la vertiginosa scalata del M5S (32,7%), partito di maggioranza relativa. Il centro-destra, invece, è la coalizione maggiore (37%), nonostante anch’essa si presenti articolata in tre diversi partiti, rispetto ai quali Salvini, a capo della Lega, è l’azionista maggiore (17,4%).
DI fronte a questi numeri, il tema centrale di qualsiasi seria analisi politica non può che essere la clamorosa disfatta della sinistra in generale – di sicuro non ascrivibile, come alcuni vorrebbero, sic et simpliciter a mere antipatie dell’elettorato nei confronti dei suoi leader. È una questione storica quella del declino della sinistra, che coinvolge trasversalmente tutti (o quasi) i Paesi occidentali, e che con queste elezioni scopriamo aver travolto anche il nostro. Il problema è sorprendentemente semplice: la sinistra non può più fare la sinistra in un mondo globalizzato. O per lo meno non può farlo come una volta. A ben vedere, i suoi obiettivi politici di lungo periodo, almeno nelle declinazioni moderate del secondo dopoguerra, hanno sempre avuto nella piena realizzazione dello Stato sociale il naturale punto d’approdo.
Per Stato sociale si intende quella forma di Stato, non a caso venuta pienamente a delinearsi – almeno idealmente – solo dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale, in cui il pubblico ha interesse preminente a che tutti i suoi cittadini siano nelle condizioni materiali di poter concorrere insieme alla cura della cosa pubblica e al progresso sociale (torna qui alla mente l’Art 3.2 Cost.). Va da sé che lo Stato sociale necessiti di immense risorse finanziare per poter funzionare efficientemente. In altre parole non basta, nella migliore tradizione liberale ottocentesca, un’astratta proclamazione di uguaglianza formale di tutti i cittadini di fronte alla legge perché tutti possano di fatto accedere alle stesse opportunità. Le condizioni materiali sono spesso barriere invalicabili, e in questo senso gli interventi statali diretti non possono che essere ingenti. E come tutti sanno, in periodi storici di crisi economica lo Stato sociale trova immense difficoltà ad operare quella necessaria perequazione dei livelli di benessere fra le diverse classi sociali che è la sua stessa primaria ragion d’essere. Ora, nonostante la grave crisi finanziaria che ha coinvolto anche il nostro Paese negli ultimi anni, non è stata probabilmente questa la causa della crisi storica in cui versa oggi la sinistra. Come si accennava in apertura, il fenomeno critico è la globalizzazione.
Non che il fenomeno sia in sé negativo sotto ogni aspetto, come quello culturale o quello dell’informazione, ma il meccanismo che viene ad innescarsi nei confronti dello Stato sociale è senza dubbio spiacevole. Più che mai allo Stato viene richiesto di essere appetibile per gli investimenti di privati, essenziali per assicurare uno dei pilastri del benessere sociale: l’abbondanza dell’offerta di lavoro. Ed è nel perseguimento di questo obiettivo che lo Stato vede assottigliarsi le risorse economiche imprescindibili per i suoi programmi sociali. Le richieste di minori tributi gravanti sulla grande industria e di maggiore libertà rispetto alla gestione dei lavoratori dipendenti lo costringono in un circolo vizioso che conduce all’antitesi stessa dei suoi fini. In sintesi, per curare il benessere dei propri cittadini lo Stato sociale non può che favorirne la piena occupazione, ma per raggiungere tale obiettivo si vede inevitabilmente costretto a smantellare alcuni dei suoi imprescindibili pilastri.
La domanda di inclusione e di perequazione tipica dell’elettorato si sinistra ovviamente non ha mai cessato di essere presente nella società civile, ma le risposte, in ragione delle dinamiche qui velocemente riassunte, hanno da anni ormai iniziato ad essere confuse, inefficaci, inappropriate. E qui emerge l’altra faccia di questa immensa questione storica: l’avanzata delle c.d. forze anti-sistema, ossia la Lega e, in particolare, il M5S. La connessione fra i due fenomeni è tanto più evidente nel caso dei 5S, che hanno palesemente espanso il loro bacino elettorale a danno del PD, fagocitandone ampie porzioni. Che queste forze politiche riusciranno a sciogliere l’intricata matassa degli attuali problemi sociali che la sinistra non è riuscita ad affrontare negli ultimi decenni sarà tutto da vedere.
A cura di Luca Collazzo