In un periodo di dilagante negazionismo e disinteresse quale il nostro, sembrerebbe impossibile azzardare l’organizzazione di uno sciopero nazionale, per di più riguardante un tema storicamente poco sentito dalla collettività quale quello del riscaldamento globale. Eppure, lo scorso venerdì, 15 marzo 2019, migliaia di studenti e lavoratori delle maggiori città italiane ed europee hanno fatto sentire la loro voce, in segno di protesta pacifica, con lo scopo di lasciare un solco nella realtà e rivendicare uno dei diritti che più ci appartengono: quello di vivere in un mondo pulito.
Se non fosse stato per Greta Thunberg, studentessa sedicenne svedese ora candidata al Nobel per la Pace, poco si sarebbe mosso nella coscienza collettiva; la giovane attivista è nota per le sue proteste tenute regolarmente davanti al Riksdag svedese, in simbolo di opposizione alle consolidate politiche che non rispettano nulla del nostro pianeta e che hanno portato – dicono gli scienziati – ad uno stato di prossima irreversibilità della condizione climatica, ormai fissatasi a +1,3 gradi Celsius.
Dal canto dell’attuale Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, parrebbe immediato poter rimandare ad un “dies a quo” la soluzione ad una questione che affligge il nostro pianeta dalla seconda rivoluzione industriale e che in tempi recenti si è aggravata, in ragione di quasi 60 anni di politiche post-belliche che miravano al solo arricchimento degli oggi derelitti paesi occidentali, primo tra cui gli Stati Uniti, attraverso l’arbitrario strumento dello sfruttamento delle risorse, esseri umani compresi.
A fare da contraltare al negazionismo gratuito di Donald Trump si innalza una schiera di migliaia di climatologi da tutto il mondo, di cui una buona quota italiani, che nella quasi totalità convergono in modo più o meno radicale sulla drastica situazione che oggi ci troviamo di fronte.
Se non fosse già abbastanza sconcertante sapere che la temperatura media mondiale si è innalzata di quasi 1,3 gradi Celsius negli ultimi 150 anni, basti ricordare che, a continuare in modo disinteressato come oggi, rimarranno all’essere umano solo 11 anni per poter invertire il senso di marcia e sperare nel recupero di una situazione favorevole a tutti; dopo il 2030, se non già prima, di questo passo la condizione climatica sarà definitivamente irreversibile. Come ha sapientemente evidenziato Mario Tozzi, geologo e climatologo italiano, ospite alla protesta romana, in tempi meno sospetti la stessa scienza attribuiva l’innalzarsi delle temperature a fattori di ordine naturale (tutti ricorderanno la questione del buco dell’ozono); oggi queste tesi sono state sfatate, nel senso che hanno indotto la comunità scientifica alla consapevolezza di quanto deleterie siano state, e siano tutt’ora, le azioni umane sull’ambiente; in particolare gli esperti imputano le maggiori responsabilità della attuale situazione a cause quali la deforestazione (per dare spazio ad impianti produttivi) e l’allevamento intensivo del bestiame. In sostanza, quella ribadita ieri, ma già prima dalla giovane Greta, non è l’ennesima e vuota rivendicazione di posizioni politiche, ma un vero e proprio grido lanciato ora dagli scienziati, ora dalla collettività, a sottolineare il recente aggravarsi della condizione del pianeta e le sue dannose riverberazioni sulla vita di tutti.
La protesta tenutasi a Roma è stata sicuramente esemplare: essa ha fatto molto riflettere sul valore di alcuni temi e sulla infondatezza di quella gerarchia che tradizionalmente relegava il problema del clima ad una sfera di necessità marginale, quasi non ne fossimo tutti responsabili. Ciò che tuttavia ha maggiormente insegnato la giornata di venerdì, è stato il valore a-politico dell’impegno umanitario: il fatto che migliaia di studenti e lavoratori (si pensa circa seimila solo nella Capitale) siano scesi in piazza senza alcuna pretesa di identificarsi politicamente, bensì con il solo impegno morale di fare una differenza concreta e di dimostrare a chi ci governa che in tema di riscaldamento globale e di salute della nostra specie non è questione di opinioni politiche, ma di evidenza scientifica.
A cura di Edoardo Formelli