Le immagini di una Hong Kong agonizzante, atterrita dall’esasperato controllo che le autorità cinesi esercitano sulla regione, hanno ottenuto una risonanza internazionale sin dalle prime settimane di giugno per arrivare fino ad un occidente che troppo spesso concede poca importanza alle notizie provenienti da una realtà asiatica che appare forse troppo lontana, tanto meravigliosa quanto enigmatica. Video e foto degli scontri quotidiani che ormai permeano le strade e la vita di Hong Kong non possono che persuaderci a temere la lenta morte di uno dei luoghi più unici al mondo.
Le contraddizioni secolari che caratterizzano il territorio e i suoi rapporti con l’opprimente governo cinese, basati sul principio “Una Cina, due sistemi”, si è sviluppato nel tempo come un complesso e fragilissimo sistema di interdipendenza e relazioni bilaterali, che sembra ormai aver raggiunto un punto di rottura.
Hong Kong è una regione unica nel sistema globale,
impossibile da paragonare a qualsiasi altro territorio.
Colonia Britannica fino al 1997, fu annessa alla Repubblica popolare cinese sulla base di un sistema “bipartito”, finalizzato a regolarne il complicato rapporto. Se infatti l’unità nazionale della Cina rimane un elemento fondamentale e indiscusso, la diversità di Hong Kong viene riconosciuta dal governo centrale stesso e garantita attraverso ordinamenti giuridici, politici, legislativi locali e da un diverso sistema economico. Tuttavia si è reso sempre più evidente nel tempo come quell’appetibile immagine di una Hong Kong indipendente, forte di beneficiare di una varietà di diritti come la libertà di espressione e di assemblea, altro non fosse che un’invana speranza, un sogno attraente ma, purtroppo, lontano dal concreto.
I continui interventi del governo cinese hanno infatti gradualmente azzerato qualsivoglia differenza tra quello stile di vita e quelle peculiari regole della singolare Hong Kong e quello delle città nella Cina continentale. Il governo centrale ha dunque infiltrato il sistema economico di Hong Kong e ha investito numerose risorse pur di rafforzare la sua presa anche sul sistema politico e giudiziario, sottoponendo la regione al rigido monopartitismo cinese.
Sarebbe infatti ipocrita -se non risibile- definire Hong Kong una piena democrazia, nonostante le molteplici dichiarazioni di Pechino che si vanta della concessione di una democrazia in realtà solo apparente. Nonostante alle elezioni siano ammessi i diversi partiti infatti, il capo del governo è scelto da una ristretta lista di persone pesantemente controllata dalla Cina.
Fu proprio quando la situazione divenne insostenibile che, nel 2014, iniziarono le prime rimostranze – studentesche e non- nella cosiddetta “Rivoluzione degli ombrelli”. Pacifici gruppi di giovani sognatori democratici si riunirono così per le strade per far sentire la loro voce contro un governo opprimente, ottenendo sempre maggiore sostegno nella regione e chiedendo più autonomie e libertà democratiche.
La Rivoluzione ebbe all’epoca vita breve, a causa della repressione immediatamente attuata dal governo centrale e alla scarsa organizzazione dei manifestanti. Se il sogno democratico e il prorompente desiderio d’autonomia sembrarono nel 2014 essere destinati a rimanere tali, dagli inizi di giugno di quest’anno una nuova voce agguerrita, esausta dei quotidiani attentati alla libertà, sembra essersi destata e, aumentando progressivamente di giorno in giorno, si è infine concretizzata come la crisi più grave che la città stato abbia mai attraversato. Se il casus belli era stato la proposta d’emendamento ad una legge sull’estradizione, che avrebbe concesso ulteriori libertà alla Cina continentale in campo giuridico permettendo di processare gli accusati di crimini definiti “gravi” presso il governo centrale, ben presto le manifestazioni si sono trasformate in un’aperta rivolta contro la Cina, e nella richiesta di libertà e autonomia.
Nonostante le differenze sociali ed economiche, che ad Hong Kong permeano ogni aspetto della vita quotidiana, il “sogno democratico” ha riunito le genti di un’intera -ed esasperata- regione, coinvolgendo uomini e donne di tutte le età, professioni e ceti.
A differenza del 2014, ora gli scontri sono più violenti e organizzati, anche grazie al contributo non indifferente offerto dai social network, che consentono l’organizzazione e la coordinazione dei gruppi di rivoltosi. È stato proprio tramite questi ultimi che gli attivisti sono stati in grado di realizzare, nel corso della decima domenica di proteste, il più grande sciopero generale mai sviluppatosi ad Hong Kong: dopo essere riusciti a bloccare il traffico stradale, aereo, ferroviario e metropolitano per alcune ore, sette cortei coordinati hanno marciato in tutte le maggiori aree della città, fin quando la rimostranza non è culminata in violenti scontri con la polizia cinese.
Se fino a quel momento qualche tenue speranza di mediazione pacifica con il governo centrale poteva ancora sembrare -anche vagamente- plausibile, le autorità cinesi hanno da quel momento compreso la gravità della situazione e la reale minaccia delle manifestazioni, iniziando così a mostrare apertamente la contrarietà del governo.
Negli ultimi due mesi l’aumento incontrollabile delle violenze della polizia ha condotto all’arresto di più di 500 persone. Essa dunque si serve di metodi sempre più brutali, non indietreggiando di fronte all’ utilizzo di lacrimogeni, spray al peperoncino e proiettili di gomma, nè tantomeno rinunciando allo scontro frontale con i manifestanti più e meno aggressivi.
Le immagini dell’arresto di due ragazzini di 13 e 14 anni nel corso della sedicesima domenica di protesta, accusati di “detenzione di armi improprie” (ovvero: vernice spray e penne laser usate per infastidire gli agenti) hanno fatto il giro del mondo, mostrando chiaramente quella che è divenuta violenza sconsiderata e fuori controllo, legittimata da un governo impaurito e dispotico.
Nonostante la violenta repressione, le proteste dilagano ogni giorno di più, assumendo progressivamente vigore e domandando maggiori concessioni e libertà.
Appare dunque lecito domandarsi a questo punto come Pechino abbia intenzione di reagire. Se infatti risulta ben poco plausibile che quest’ultima accolga almeno in parte le richieste dei manifestanti, è pur vero che la situazione è ormai divenuta insostenibile per entrambe le parti: la mobilitazione delle truppe e gli innumerevoli interventi hanno infatti pesato in maniera non esigua sul governo centrale. Quello che è chiaro è che Pechino dovrà gestire questa crisi direttamente, perché l’amministrazione di Hong Kong è ormai screditata: la Cina aspira a riprendere controllo di un territorio diventato ribelle senza intaccarne eccessivamente un’autonomia “di facciata”. Ciò che appare meno inequivocabile invece è la politica che il governo ha in mente di attuare per raggiungere questo obiettivo.
Nel frattempo le tensioni aumentano ogni giorno, e anche le manifestazioni più pacifiche sono ormai divenute teatri di violenze e brutalità inammissibili.
Articolo a cura di Chiara Micheli