31 marzo 2019, Hong Kong. Il popolo della più occidentalizzata città facente ormai parte della Cina sta iniziando ad agitarsi. Enormi folle, principalmente composte da giovani, si aizzano contro un governo che inizia ad inglobare l’importante porto, poco a poco, privando così i cittadini di esclusivi diritti di cui hanno da sempre goduto.
Per capire le dinamiche della protesta è importante tornare indietro, precisamente al 1842, quando la Cina, tramite il trattato di Nanchino, cede Hong Kong alla Gran Bretagna. Cosa succede poi? Per farla breve: la Cina torna sui suoi passi, riguadagnando il territorio nel 1997, riannettendolo così alla propria Repubblica sotto l’appellativo di “Regione amministrativa speciale”. Questa città, fino ad oggi, ha goduto, infatti, di importanti diritti rispetto al resto della Cina in quanto, logicamente, farla passare da una Monarchia Costituzionale a una Repubblica Socialista non sarebbe stato “ideale”, detto in termini grezzi. Questo accordo stipulato nel 1997, come menzionato precedentemente, avrà solamente una durata di 50 anni: nel 2047, infatti, la città cesserà di avere l’autonomia che le è stata concessa e diventerà sotto tutti i punti di vista (se non consideriamo il sentimento nazionalistico hongkonghese) parte della Cina.
Il gigante asiatico, non contento, ha iniziato lentamente a rimuovere uno ad uno i diritti della popolazione, cominciando da forse il più importante ovvero il diritto di asilo politico dei rifugiati politici cinesi nella grande città, che è stata per secoli il rifugio di chiunque venisse esiliato o comunque avesse problemi con il governo (ad esempio, durante la guerra civile tra nazionalisti e comunisti). L’azione provocatoria della Repubblica è stata quella di aver progettato un disegno di legge sull’estradizione di cittadini arrestati ad Hong Kong per poi sottoporli alle norme dell’ordinamento giuridico cinese che prevede anche l’utilizzo della tortura per estrapolare confessioni.
Il popolo quindi, di fronte a questo, ha deciso di insorgere e lottare affinché vengano restituiti i propri diritti e la propria libertà. Simbolo di questa protesta (almeno da parte dei manifestanti) pacifica è diventato l’ombrello utilizzato per ripararsi dalla pioggia dapprima e poi per proteggersi dalla polizia che ha ultimamente iniziato ad utilizzare violenza, gas lacrimogeni e proiettili per fermare i rivoltosi. La protesta, infatti, è sfociata nel caos da quando lo Stato ha iniziato a “contrattaccare” la gente che, secondo loro, armata di striscioni, cori e lacrime, sta compiendo un imperdonabile e pericolosissimo atto di terrorismo. Durante la manifestazione i poliziotti, indossando scudi e con in mano manganelli, rincorrono i manifestanti disarmati e ne arrestano ogni giorno a centinaia.
Le richieste degli abitanti di Hong Kong sono 5:
Ritirare il disegno di legge che prevede l’estradizione verso la Cina; le imminenti dimissioni di Carrie Lam, capo esecutivo cinese; l’avvio di un’inchiesta sulla brutalità della polizia; il rilascio delle persone arrestate durante la protesta; Una forma di governo democratica.
Ad oggi, Hong Kong non ha desistito e, con tutti i mezzi a sua disposizione, ha continuato a far sentire la sua voce. La situazione è degenerata con la morte di uno studente (che, in seguito, è diventato martire del movimento) precipitato da un’edificio durante la manifestazione e quella di un anziano, anche lui deceduto, ma stavolta a causa di un mattone lanciatogli in testa durante uno scontro diretto tra manifestanti e polizia. In generale, molte sono le persone rimaste gravemente ferite durante gli scontri: chi per via del chaos esploso per le strade della città, chi per mano della polizia stessa.
Uno spiraglio di sole nel bel mezzo della tempesta che dura ormai da 8 mesi è stato però l’avvento delle elezioni distrettuali avvenute il 24 Novembre e che hanno registrato un numero record di elettori (aumentati del 35% dal 2015).
Le votazioni, al contrario delle aspettative del governo cinese, sono avvenute in maniera pacifica concludendosi (anche in questo caso contro ogni previsione di Pechino che aveva fiducia in un ribaltamento del risultato dovuto ai “silenziosi”, così sono stati definiti, elettori pro-Pechino) con il trionfo dei candidati pro-democrazia che adesso occupano ben l’87% dei seggi. Apparentemente una vittoria questa (almeno temporanea), che vuole dimostrare resilienza e resistenza da parte di un popolo che non si arrende di fronte a ingiustizie e soprusi che se non fossero stati fermati fin dall’inizio, sarebbero indubbiamente diventati la norma per Hong Kong da qui a qualche anno.
Adesso sta al capo esecutivo pro-Pechino Carrie Lam ed alla Cina rispondere. Non è ancora chiaro se il governo accetterà la legittimità del verdetto elettorale o se prenderà ulteriori provvedimenti per abbattere definitivamente questa ondata separatista, che, con il passare del tempo, prende sempre più le sembianze di un maremoto.
Articolo a cura di Sofia Palla