It’s all about money

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Ormai da almeno 40 anni, nei paesi sviluppati, il fattore ambiente, inteso generalmente come degrado o insieme di condizioni ambientali in cui vive l’uomo, viene considerato anche come elemento che influisce sul benessere dalla popolazione.

Le maggiori criticità nella salvaguardia del bene ambientale sono determinate però dalle difficoltà di definire l’ambiente, i beni ambientali e soprattutto il rapporto di questi ultimi con le “regole” del mercato.

L’uomo si è reso conto durante i secoli che, se l’ambiente si esaurisce o si degrada in modo irreparabile, anche la sicurezza e la sua stessa sopravvivenza saranno in pericolo. L’economia moderna – nota come economia del benessere – ha portato l’uomo alla convinzione che conoscere e valorizzare l’ambiente è sicuramente un fattore indispensabile per creare crescita economica, innovazione tecnologica, etica e qualità di processo produttivo e prodotto. Ad oggi, grazie alle nuove tecnologie, è stato possibile spostare il limite massimo di esaurimento delle risorse e dell’impatto ambientale che l’ambiente può accettare. Un limite allo sviluppo e alla crescita economica però esiste.

Gli impatti ambientali e il mancato rispetto dell’habitat in cui viviamo, nonché lo sfruttamento economico delle nostre risorse, costituiscono un danno costoso che si ripercuote con criticità sulla nostra salute e sulla tutela della biodiversità in generale. Prenderne atto, e far sì che la presa di coscienza in tal senso diventi la molla per uno sviluppo sostenibile, è sicuramente uno dei modi più costruttivi ed etici per creare occupazione ed innovazione. Il Papa da sempre incoraggia i governi a prendere coscienza “del problema della distruzione del pianeta che noi stessi stiamo portando avanti”, e a diffondere “una coscienza ecologica”. Inoltre, il Pontefice spesso sottolinea che “la coscienza sulla difesa dell’ambiente implica un lavoro che parta dalle periferie e proceda verso il centro, verso la coscienza dell’umanità”.

E allora, concretamente, è prioritaria l’esigenza di arrivare ad un accordo globale, vero e rispettato, sul clima. Un accordo che, tra l’altro, promuova la riduzione dei combustibili fossili e includa target che incoraggino gli investimenti per ridurre i gas serra e mitigare i cambiamenti climatici. A livello globale, è necessario investire almeno mille miliardi l’anno in energie rinnovabili, oltre a innalzare gli standard sull’efficienza energetica in settori chiave, dalle auto alle apparecchiature elettriche all’illuminazione. Gli investimenti in efficienza energetica potrebbero portare benefici economici globali pari a 18mila miliardi di dollari entro il 2035. 

Sempre stando agli esperti, tutte le città dovrebbero impegnarsi a introdurre strategie urbane di sviluppo a basse emissioni in settori chiave come trasporto pubblico, rifiuti rinnovabili ed efficienza degli edifici, ottenendo un risparmio di 17mila miliardi di dollari, a livello globale, entro il 2050. Fuori dalle città, invece, è necessario fermare la deforestazione e ripristinare i terreni agricoli degradati. Sia le economie mature che quelle emergenti dovrebbero impegnarsi nel ‘carbon pricing‘, ossia la tassa sulle emissioni, e tagliare i sussidi per i combustibili fossili. Ai Paesi del G20, e agli altri, si chiede di includere l’impatto sul cambiamento climatico nei piani infrastrutturali nazionali; al settore privato di sostenere la ricerca e lo sviluppo di tecnologie a basse emissioni; alle aziende di adottare target a breve e a lungo termine per contenere la CO2. Le ultime due mosse sono la riduzione delle emissioni aeree e navali –  attraverso standard di efficienza – e la messa al bando degli idrofluorocarburi (HFC), ora usati come refrigeranti, solventi, nelle protezioni antincendio e nelle schiume isolanti.

E’ una strada da percorrere battendo interessi di gruppi economici e industriali che addirittura negano la relazione tra emissioni e cambiamenti climatici ma anche sapendo che si potrà evitare un processo di trasformazione confuso e dannoso solo se, oltre agli obiettivi, saranno chiare anche le tappe e le modalità. Molti progetti che richiedono investimenti cospicui potrebbero rivelarsi inutili e, quindi, antieconomici.

E i soldi c’entrano, eccome.

Inoltre, un’economia ‘carbon free’ costa, anche se promette un buon ritorno d’investimento. L’impegno per uno sviluppo sostenibile e la lotta ai cambiamenti climatici non sono tra loro in competizione, ma si rafforzano a vicenda. I vantaggi, anche economici, superano i costi. Lo ha già detto da tempo la Banca Mondiale: combattere il cambiamento climatico farà crescere il PIL mondiale fino a 2.600 miliardi di dollari all’anno entro il 2030, in termini di nuovi posti di lavoro, aumento dei rendimenti agricoli e benefici di salute pubblica.

La scelta tra lotta al cambiamento climatico e crescita economica, insomma, è un falso dilemma.  Non intervenire, al contrario, ha un costo notevole che finisce soprattutto sulle spalle dei più poveri. Un incremento delle temperature pari a tre gradi, avverte l’Oxfam, da qui al 2050 porterà a 790 miliardi di dollari l’anno il conto che i Paesi in via di sviluppo dovranno pagare per adattarsi al cambiamento climatico, cui vanno aggiunti 1.700 miliardi all’anno di perdite economiche. A quel punto, i 100 miliardi elargiti dagli Stati ricchi sarebbero davvero poca cosa.  Progressi sul fronte delle emissioni sono stati già fatti, tanto che la decarbonizzazione sembra una strada senza ritorno ormai imboccata.

Il problema è: in quanto tempo verrà percorsa?

 Articolo a cura di Francesca Feo

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