Lo scorso 13 agosto il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha incontrato il presidente della BCE Mario Draghi nella casa di campagna di quest’ultimo a Città della Pieve. Quale sia stato l’oggetto di questo faccia a faccia non è ben chiaro, apparentemente solo un incontro informale, quasi segreto agli occhi della stampa. Eppure è certo che i due si siano confrontati sulla critica situazione economica italiana ed europea, testimoniata sempre più dai recenti dati negativi su recessione, disoccupazione e stagnazione. “L’Italia non è osservato speciale”, ha commentato il premier Renzi, sempre più convinto di voler fare i “compiti a casa” per il proprio paese e non perché qualcuno glielo impone. Ad ogni modo, però, è chiaro che di riforme ce ne sia ancora bisogno, di riforme condivise, di “una combinazione di politiche che prevedano insieme misure monetarie, fiscali e strutturali”, così come affermato da Draghi al simposio dei banchieri centrali, tenutosi ad agosto a Jackson Hole, negli Stati Uniti.
Ma che tipo di intervento si richiede? Dopo anni segnati dal leitmotiv dell’austerità, sembra che le intenzioni dei governi nazionali abbiano cambiato direzione, data la ripresa ancora debole dell’area euro. In Italia le previsioni di crescita dell’economia sono state riviste al ribasso, nonostante le riforme e la tanto nota “spendingreview”, con una flessione del PIL nel secondo semestre pari a -0,3% rispetto allo stesso periodo del 2013 (dati Istat), in Francia i dissidi in tema di politica economica hanno condotto persino alle dimissioni a catena del governo, intenzionato a “non sottomettersi”, secondo le parole dell’ormai ex ministro dell’economia Arnaud Montebourg, “agli assiomi ideologici della destra tedesca”. La stessa Germania, infine, sembra essere incastrata nelle proprie politiche conservatrici e di austerità, dovendo anch’essa scontare un rallentamento dell’economia e un brusco calo dell’indice IFO sulla fiducia degli imprenditori. E’ evidente, in maniera uniforme, che la nuova parola chiave sia ormai flessibilità.
Flessibilità dai criteri di convergenza del Trattato di Maastricht, con il quale nasceva nel 1992 l’Unione Europea e da lì a pochi anni anche l’UEM (Unione Economica e Monetaria) e la BCE.Tra questi, i parametri più volte chiamati in causa, spesso definiti “oggettivamente anacronistici” rispetto a questi anni eccezionali di crisi, sono il rapporto fra deficit, ossia il disavanzo annuale di uno stato, e PIL non superiore al 3% e il rapporto fra debito complessivo e PIL non superiore al 60%. Basti solo pensare che nel primo trimestre dell’anno il rapporto debito/PIL dell’Italia ha superato la soglia del 135%, mentre quello dell’Eurozona si è attestato al 93,9% (dati Eurostat). Flessibilità, inoltre, dal Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione Europea, meglio noto come “Fiscal Compact”, firmato nel 2012 da 25 Stati membri al fine di mantenere le proprie finanze pubbliche sane e sostenibili e di salvaguardare così la stabilità di tutta la zona euro.Tale patto, ricordiamo, ormai divenuto sinonimo di austerità, ha previsto l’inserimento del pareggio di bilancio di ciascuno stato “in disposizioni vincolanti e di natura permanente”, nonché ribadito l’obbligo di rispettare il rigido vincolo del 3%.
Flessibilità, insomma, da un’Europa che appare sempre più, agli occhi di molti, solo “tagli, vincoli e spread”, per utilizzare le parole del nostro premier.
Detto ciò, tuttavia, è necessario ricordare che l’intero quadro istituzionale dell’Eurosistema si basa sull’indipendenza della politica monetaria e, dunque, della BCE da ogni influenza politica dei Governi nazionali; principio questo alla base del mantenimento dell’obiettivo fondamentale della nostra Banca Centrale, ossia la stabilità dei prezzi. Ma che forse la BCE abbia dimenticato di aver aggiunto nel 2003 la clausola “al di sotto ma in prossimità della soglia del 2%? E di aver fatto tutto questo per il rischio concreto di deflazione, come quello che si sta profilando in questi mesi? Non è forse questa una crisi da domanda aggregata, l’unica che la Banca Centrale possa influenzare, in quanto titolare del potere di emissione?
Di fronte al crollo della produzione, della fiducia di consumatori e investitori, sembra forse aprirsi uno spiraglio di luce in fondo al tunnel, dopo l’incontro di Città della Pieve, dopo il meeting di Jackson Hole. Benché nella forma di un “do ut des” (“le riforme strutturali nazionali non sono più rinviabili!”), il discorso di Draghi parla chiaro: la BCE è disposta a fare di più e a ricorrere a misure “non convenzionali” (piano Juncker? Svalutazione dell’euro? Nuovi prestiti Ltro?Quantitative easing?) per il mantenimento delle aspettative di inflazione nel medio e lungo termine, memore forse dell’esperienza giapponese e statunitense.
A proposito di soluzioni possibili, due ricercatori italiani, Francesco Bianchi e Leonardo Melosi, hanno formulato, nel loro paper “Escaping the Great Recession”, una proposta concreta per superare una crisi da domanda come questa con tassi nominali già prossimi allo zero: un accordo istituzionale tra politica monetaria e politica fiscale, tra BCE e governi nazionali. La prima riporti il rapporto debito/PIL al livello pre-crisi via inflazione (abbattendo solo la parte del debito generata dalla recessione), così da ridurre il costo reale del credito e svalutare il valore nominale del debito pubblico, i secondi si astengano da restrizioni fiscali, ossia dall’aumentare le tasse o diminuire le spese, fino al raggiungimento della vecchia soglia.
Indipendentemente dalle decisioni dei prossimi mesi e dalle misure concrete che verranno adottate, una cosa è certa: per salvare l’Europa è necessario che i Draghi e i Renzi di oggi e di domani collaborino tra loro, improntando i propri interventi sulla parola Compromesso.
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