Libertà d’espressione; non invocate la censura, studiate!

Libertà d’espressione; non invocate la censura, studiate!

L’uomo è l’unica specie vivente che possiede una storia. E la storia, diceva Cicerone, “è per l’umanità ciò che la memoria è per il singolo individuo.” Abbiamo conseguito un’evoluzione culturale formidabile, trasmettendo, di padre in figlio, da una generazione all’altra, miliardi di informazioni. All’evoluzione naturale, un processo lentissimo ed inesorabile, scandito da vere e proprie mutazioni fisiche e comportamentali, si contrappone quella culturale, rapida ed impetuosa: un privilegio dell’essere umano, ciò che ci distingue dalle altre forme di vita.

Il motore di questa straordinaria evoluzione è il linguaggio. La facoltà di articolare una varietà di suoni ci ha permesso di instaurare, attraverso la lingua parlata, un legame profondo e intergenerazionale. Abbiamo intrapreso un dialogo che trascende il tempo. Ogni generazione, grazie al linguaggio, usufruisce delle informazioni ereditate dalla generazione precedente; e così, attraverso i secoli, l’uomo tramanda e trasmette conoscenze, usanze, pratiche comportamentali, modelli valoriali, invenzioni, tecniche edilizie e agricole… Il linguaggio è il veicolo sul quale viaggiano informazioni preziose, che costituiscono l’essenza di un processo evolutivo formidabile. Ogni generazione contribuisce a suo modo e arricchisce società sempre più complesse.

L’autorità pubblica ha reagito a tale processo ampliando i propri poteri ed estendendo le proprie competenze, allo scopo di gestire e amministrare questa complessità crescente. Del resto, è tramite la creazione di un apparato coercitivo, lo Stato, che si è concretizzata la transizione dallo stato di natura allo stato di diritto. Le prime istituzioni, sorte per placare il disordine e mitigare l’anarchia, devono adeguarsi a questo impetuoso processo evolutivo per poter sopravvivere. Ovviamente, ogni regime si rapporta con la comunità territoriale che governa in maniera differente. Nascono tribù, città-stato, regni e imperi, che si avvicendano attraverso i secoli, si contendono il dominio e la giurisdizione su territori sterminati, sorgono e muoiono ciclicamente. Ma le istituzioni finiscono per cristallizzare specifici rapporti di potere: del resto, relazioni del genere sono destinate a formarsi all’interno di ogni comunità sociale, ma vengono effettivamente formalizzate soltanto tramite la creazione di un apparato statale e la conseguente attribuzione di cariche e ruoli, nell’ambito di tale sistema. Spesso l’ingordigia ispira l’azione politica di chi governa, tesa a preservare un determinato assetto di potere più che al perseguimento dell’interesse generale. Così, nel corso dei secoli, l’autorità politica elabora leggi e norme, pone limiti e vincoli, reprime diritti e si assicura privilegi, sopravvivendo e conservando la propria struttura di base.

E la parola, bella e libera da ogni vincolo, viene percepita dal potere come un pericolo: è uno strumento in grado di mettere in discussione qualsiasi rapporto di potere. L’autorità, storicamente, ha bandito l’impiego arbitrario e discrezionale della parola per blindare specifici equilibri politici, e preservare lo status quo. Del resto, “per capire chi vi comanda basta scoprire chi non vi è permesso criticare” diceva Voltaire (o meglio, è una frase che gli è stata attribuita.)

La comunicazione è potere e chi ce l’ha non vuole condividerlo con nessuno. E la libertà di stampa è un’articolazione più settoriale del sacro diritto di esprimersi liberamente: i media filtrano le notizie, possono maneggiarle, plasmarle, e talvolta, persino crearle o distorcerne completamente il significato.

Secondo James Curran, i media tendenzialmente si limitano a promuovere gli interessi del potere. Ma al tempo stesso, possono favorire l’insorgenza di contropoteri. Di conseguenza i media autonomi, che raccolgono e divulgano informazioni liberamente, diventano oggetto di minacce e pressioni, anche in paesi dove l’ordinamento tutela, perlomeno formalmente, la libertà d’esprimersi. Il caso italiano è emblematico: nel 2020, in quanto a libertà di stampa, la nostra nazione si è attestata al 41° posto.

Il linguaggio è, quindi, il carburante che alimenta l’evoluzione culturale dell’uomo. Eppure, egli ne deturpa l’essenza, violentando, con feroce autolesionismo, la propria natura. Opprime e mortifica la libertà d’esprimersi.

Oggi la libertà d’espressione si diffonde su scala globale attraverso l’espansione di complesse strutture informatiche, piattaforme mediatiche dove gli utenti comunicano e condividono contenuti testuali e multimediali: i social network. Il dibattito pubblico odierno si ambienta su piattaforme come Instagram, o Twitter: nella sezione commenti di un post pubblicato su Facebook, in una room di Clubhouse, nelle chat crittografate di Telegram… Le principali testate giornalistiche si sono trasferite su queste piattaforme, creando i propri profili e le proprie pagine. Oggi, grazie ai social network, chiunque può partecipare al dibattito pubblico, contribuendovi. Un tempo, soltanto l’aristocrazia politica e giornalistica vi poteva accedere, alimentando e indirizzando la discussione verso questioni e tematiche appositamente selezionate dalla casta. Questa liberalizzazione, ovviamente, ha anche delle conseguenze negative, spesso deleterie per il tenore e lo spessore del dibattito pubblico, specialmente su questioni politiche di interesse generale. “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli,” disse Umberto Eco nel 2015 all’Università di Torino. Sembra una sentenza, un’ostentazione di intellettualismo e supponenza. Ma il filosofo, bisogna riconoscerlo, denuncia e rileva l’ipocrisia insita negli atteggiamenti più ottimistici. L’ampliamento dello spazio in cui ha luogo il dibattito pubblico, con il conseguente incremento della quota di individui che vi partecipano, contribuisce ad alimentare fenomeni insalubri e nocivi, come l’hate speech. Questa liberalizzazione porta con sé fake news, sostenta teorie antistoriche o antiscientifiche, prive di fondamento (basti pensare al negazionismo o al terrapiattismo), e chi se ne fa portatore ottiene un certo seguito, creando attorno alla propria figura una vera e propria community.

È vero, bisogna gettare uno sguardo anche al bicchiere mezzo vuoto.

Ma non tutto il male vien per nuocere. I social network, in primo luogo, possono diventare un potentissimo strumento di emancipazione sociale. In paesi come l’Iran, il regime (autoritario, con forti connotazioni teocratiche) censura i principali social network e reprime il dissenso attraverso la chiusura sistematica e capillare di profili, pagine, blog e forum. Molte donne, che pubblicano foto in cui ritraggono i propri volti, truccati, senza l’hijab, sono spesso costrette a cancellare ciò che postano per sfuggire dai controlli sporadici del regime, in un paese dove il fondamento del potere politico è di matrice religiosa.

In Italia, ultimamente, molti politici hanno accarezzato l’idea, apparentemente innocua, di istituire “commissioni,” o più in generale di varare strumenti legislativi volti ad arginare la diffusione di fake news e hate speech. Tralasciando, volutamente, intricati (seppur interessanti) quesiti filosofici (sull’esistenza, sulla raggiungibilità… della verità) teniamo conto dell’immensa valenza politica che un ampliamento delle competenze dell’autorità pubblica, in questo senso e in questa direzione, avrebbe. Attribuire allo Stato il potere, la facoltà di determinare la verità, ciò che è vero e ciò che è falso, per quanto allettante, per amor di “verità,” può essere davvero pericoloso.

Ma allora, come appianare specifiche storpiature culturali? Come si può concedere libertà di parola e d’espressione, a un individuo che nega l’Olocausto, o sostiene teorie omofobiche? Semplice, affrontandolo! È esattamente questa l’altra potenziale e straordinaria funzione dei social network: le piattaforme mediatiche possono fungere da “arena culturale,” luogo dedito allo scontro e alla contrapposizione libera e priva di vincoli fra tesi divergenti. La soluzione, per affrontare chi sostiene argomentazioni così abominevoli, non è ricorrere a strumenti repressivi come la censura, bensì spacchettare l’antitesi, smontarla pezzo per pezzo, dimostrarne l’infondatezza. Il bavaglio non è mai una soluzione; contribuisce a legittimare chi viene censurato e offre alla parte avversa, oggetto di censura, argomenti per difendersi. Bisogna studiare, informarsi, e affinare il proprio spirito critico. Meglio usare la libertà d’espressione per delegittimarne presunti abusi. Non invocarne la revoca.

Articolo a cura di Michelangelo Mecchia

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