L’importanza di una lingua in continua evoluzione

L’importanza di una lingua in continua evoluzione

Negli ultimi anni, in Italia e nel mondo, e in questi giorni, nel nostro ambito universitario, si è molto discusso il cambiamento della lingua ed il suo impatto sulla cultura ed identità di un popolo. Che si parli di introduzione di nuove forme grammaticali volte a favorire l’inclusività sociale (genere neutro, declinazione dei sostantivi che indicano mestieri, etc.) oppure semplici contaminazioni da altre lingue (zeitgeist, location, parvenue, siesta, etc.), il rapido cambio della lingua italiana dovuto alla globalizzazione ed alla velocizzazione della società crea spesso sgomento ed accesi dibattiti tra chi sostiene l’evoluzione della lingua e chi vi si oppone. In questo articolo andrò brevemente a spiegare perché Io credo che opporsi ad un qualsiasi cambiamento della lingua a priori sia sbagliato, e di come una simile mentalità possa impattare in maniera negativa la società e la lingua italiana; successivamente, entrerò nello specifico e chiarirò perché i cambiamenti portati dalle forme volte a garantire maggiore inclusività siano a mio parere positivi.

Prima di poter analizzare le critiche mosse all’evoluzione della lingua, bisogna individuare e capire quali sono. Le critiche più comuni nei confronti dei cambiamenti di una lingua sono 2: – l’evoluzione della lingua ne mina la sua correttezza – la contaminazione della lingua da parte di altre ne mina la sua purezza Oltre a queste due affermazioni generali, una terza critica si sofferma nello specifico sull’evoluzione della lingua verso un linguaggio più inclusivo (genere neutro, etc.); questa terza critica vede nell’evoluzione della lingua un processo forzato imposto da una particolare fronda politica – la famosa “dittatura del politicamente corretto” – il cui risultato è la deturpazione della lingua e la creazione di una società frammentata ed individualista. Nella prossima sezione andrò ad analizzare le prime due critiche generali mosse nei confronti dell’evoluzione della lingua, mentre nel successivo paragrafo mi focalizzerò sulla critica specifica all’evoluzione inclusiva. L’articolo finirà con una breve riflessione sull’importanza del cambiamento più in generale. Visto il poco spazio disponibile per trattare il tema, è possibile che il significato di alcune mie affermazioni non sia chiaro, o che il tema sia trattato con troppa superficialità; di questo mi scuso in anticipo, è quanto succede quando si tratta un tema complesso in un articolo così breve ed in maniera così sbrigativa.

Sulla correttezza e purezza della lingua

Credo che discutere la correttezza grammaticale di nuove forme linguistiche introdotte sia del tutto inutile. Il concetto di “correttezza” non è (e mai è stato, e mai sarà) infinito ed oggettivo, ma è limitato al periodo storico ed al contesto geografico e sociale in cui si vive: le costruzioni grammaticali accettabili in uno castellano imperiale del XV secolo differiscono da quelle utilizzate nello spagnolo dell’America Latina del XXI secolo, poiché l’ultima fu fortemente influenzata da popoli amerindi ed europei, che nel corso dei secoli (complice la lontananza geografica) spinsero lo spagnolo parlato nelle Americhe ad assumere pronunce ben distinte e costruzioni spesso diverse da quelle utilizzate in Spagna. Si potrebbe dire che lo spagnolo parlato in Messico sia sbagliato, che non sia “un vero spagnolo” (frase molto utilizzata in Spagna); questo pone chiaramente un problema quando si pensa che la popolazione (ispano-hablante) messicana è quasi tre volte quella spagnola. Dunque lo spagnolo – che fonda la propria importanza proprio sull’essere la lingua dell’America Latina – è in realtà corretto solo in Spagna? Questo sarebbe un paradosso che svuoterebbe le tasche dei tanti istituti di lingua in Spagna che ironicamente affermano quanto detto sopra con la più solida delle convinzioni: che senso avrebbe infatti studiare il “vero spagnolo”, visto che questo è parlato da un numero di persone trascurabile rispetto a quello delle Americhe? E perché lo spagnolo parlato in Spagna è corretto mentre quello parlato in Colombia no, se le persone che parlano spagnolo in Colombia son più di quelle che lo parlano in Spagna? Si potrebbe allora rispondere che lo spagnolo di Spagna è quello vero perchè da lì proviene originariamente la lingua. Questo pone un altro problema: parlare uno spagnolo del XVI secolo mi rende allora più “originario”, e per questo più vero? Eppure sono sicuro che andando per le strade di Valencia parlando come Cervantes mi renderebbe quasi incomprensibile (esperienza personale). Ne deduciamo che entrambi gli spagnoli (del Messico e della Spagna) sono corretti – non infinitamente ed oggettivamente, ma nella regione e periodo storico in cui vengono parlati.

Penso sia ora necessario un esempio più vicino ai lettori italiani; chiunque abbia letto Dante (autore spesso usato come riferimento dai “protettori della lingua”) avrà notato la presenza di una lettera a noi sconosciuta: “O somma sapïenza, quanta è l’arte che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo, e quanto giusto tua virtù comparte!” (Inferno, Canto XIX). La lettera ï così comunemente usata da Dante sembra a noi italiani del 2021 come una lettera esotica, visibile in altre lingue ma non quella italiana. Forse Dante – fondatore della lingua italiana – utilizzava un italiano non corretto? Forse siamo noi ad utilizzare un italiano non corretto? Eppure sia noi che Dante siamo ben convinti di non star facendo alcun errore, perché non facciamo che seguire regole dettateci dai maestri del periodo storico in cui viviamo, ed in questo riusciamo a comunicare (scopo ultimo della lingua).

Ne risulta allora che entrambi gli italiani sono corretti, e che la differenza tra i due è dovuta al cambiamento prodotto dagli eventi storici che li separano. Se non esiste il concetto di lingua “corretta” – o almeno, ogni lingua parlata è corretta a seconda del contesto – allora possiamo sfatare anche il mito della “purezza della lingua”: visto che non esiste lingua corretta, non può esistere una lingua pura. La lingua è infatti il prodotto di interazioni tra diverse lingue sedimentate nel corso dei secoli, ed ogni lingua percepita come “pura” è in realtà frutto di matrimoni tra lingue precedenti, che a loro volta furono frutto di unioni precedenti, e così via dicendo; questa “mezcla” (utilizzo un termine dal senso razziale non a caso) che ne deriva rafforza la lingua, poiché importa caratteristiche e schemi di pensiero differenti da altre lingue e le consente di crescere e migliorarsi attraverso il dialogo con esse. Come con la cultura o con la genetica, il modo migliore per rafforzare ed arricchire una lingua è consentirle di mescolarsi ad altre. Declamare il ritorno “all’italiano puro” sarebbe quindi come voler tornare alla “vera musica” o alla “vera arte”: una pericolosa utopia senza fondamenta che nasconde profonda insoddisfazione esistenzialista.

Abbiamo visto che il concetto di lingua “corretta” o “pura” è sbagliato, perché la lingua non è un punto fisso atemporale, ma una linea in continua evoluzione nello spazio e nel tempo. La lingua è quindi soggetta e prodotta dal cambiamento, determinato dal contesto storico nel quale si trova la lingua e a sua volta determinante quel contesto storico. Focalizziamoci ora su questo. Tutti i principali avvenimenti storici portarono ad una drastico cambiamento della lingua del paese in cui accaddero (Rivoluzione culturale cinese, Rivoluzione russa, Rivoluzione francese, etc.) Questi cambiamenti furono necessari per consentire alla società di concepire ed esprimersi sulla nuova realtà – la Rivoluzione russa eliminò alcune lettere dell’alfabeto cirillico per semplificare il russo e promuovere la lettura dei testi comunisti fra le fasce sociali basse dell’impero; l’arabo introdusse diversi termini giuridici e politici dal turco per allineare la lingua al processo di democratizzazione maghrebina del XIX e XX secolo. A loro volta, i cambiamenti nella lingua modificarono il pensiero dell’individuo (si pensa attraverso una lingua, con ciò che la lingua offre) rafforzando il cambiamento individuale e sociale in atto. Domandarsi se sia il cambiamento nella lingua a portare ad un cambiamento sociale o viceversa è come chiedersi se venga prima l’uovo o la gallina, e non è rilevante per questo scritto; ciò che importa è il nesso tra cambiamento sociale e cambiamento della lingua, e cosa ne deriva: se una modifica della lingua porta (ed è portata) ad un cambiamento sociale, opporsi al cambiamento della lingua vuol dire opporsi al cambiamento sociale – ovvero all’evoluzione della società. Non è un caso che le lingue con le maggiori evoluzioni sono quelle parlate dalle nazioni storicamente piu’ fiorenti (inglese, spagnolo, francese, etc.), mentre le lingue con le minori variazioni sono quelle delle tribù della Papua e dell’Africa nera: le lingue dei nativi papuani cambiarono poco perché furono pochi i cambiamenti a cui dovettero adattarsi. Allo stesso modo, non è un caso che i maggiori oppositori all’evoluzione della lingua furono coloro che vedevano nell’evoluzione della società una minaccia: l’imperatore cinese si oppose con forza all’utilizzo del cinese vernacolare da parte di Lu Xun, poichè vedeva nella fioritura della letteratura popolare una minaccia al totalitarismo imperiale; la dinastia Qajar preservò la lingua persiana da qualsiasi influenza straniera per mantenere la Persia isolata ed evitare che importasse idee rivoluzionarie da fuori.

Con questo non intendo giustificare ogni cambiamento linguistico, bensì sottolineare l’importanza del cambiamento all’interno della lingua, ed il suo ruolo nella sana evoluzione di un individuo e di un popolo. Opporsi al cambiamento della lingua rifacendosi ad una “lingua pura” ricorda quegli aristocratici dei secoli scorsi che si sposavano tra consanguinei per mandare avanti la “stirpe reale”, di fatto producendo una prole malaticcia ed incapace a governare.

Sull’evoluzione inclusiva della lingua

Dopo aver sfatato i miti di “correttezza” e “purezza”, e stabilito l’importanza di una lingua pronta al cambiamento, penso sia il momento di entrare nel merito e trattare la “dittatura del Politicamente corretto” ed i suoi presunti risvolti dichiarati da chi gli si oppone. L’utilizzo di un linguaggio inclusivo (genere neutro, “declinazione dei sostantivi che indicano mestieri”, etc.) rispecchia l’apertura sociale che caratterizza il nostro secolo, ed ha a sua volta lo scopo di plasmare la mentalità dell’individuo verso una maggiore tolleranza sociale (rapporto lingua – società – individuo descritto precedentemente). Accusare il “politicamente corretto” (concetto vago e per questo pericoloso) di dittatura per l‘introduzione del genere neutro sarebbe come accusare il femminismo pre-cristiano di totalitarismo per l’introduzione del genere femminile, così ignorando il naturale e costante adattamento della lingua al contesto in cui viene parlata. Il concetto di dittatura è inoltre senza senso, perché arricchire la lingua con nuove caratteristiche e lessico non può che dare maggiore libertà a chi la parla (lessicale ed intellettiva). Non è un caso che quasi tutte le più feroci dittature abbiano infatti semplificato la lingua, così da ridurre i processi intellettivi del popolo che la parlava e limitarne le possibilità di opposizione.

L’ultimo aspetto della critica nei confronti dell’evoluzione inclusiva della lingua è la presunta frammentazione sociale ed il successivo trionfo dell’individualità che la lotta per l’inclusività (di cui la recente evoluzione della lingua fa parte) porterebbe. Questo pensiero affonda le radici in una mentalità molto comune che vede individuo e società in netta opposizione l’uno con l’altra. Non penso che questo sia corretto: l’individuo ha in primis bisogno di essere soddisfatto in sé stesso, poiché il non vivere bene con sé stessi porta al disperato bisogno di compagnia, da cui derivano relazioni sociali forzate ed una conseguente società debole. La frammentazione sociale è quindi il primo passo verso il riconoscimento dell’individuo, che costituisce la base della sua successiva crescita – punto fondamentale di ogni società fiorente. Esso è in effetti il trionfo dell’individualità, necessario per il trionfo della società. Abbiamo dunque visto che i temi e le argomentazioni mosse contro l’evoluzione della lingua presentano diversi errori di fondo e di metodo, e che se presi sul serio non proteggerebbero la libertà individuale o la lingua italiana, ma avrebbero un effetto opposto. Credo che la paura del cambiamento linguistico sia un pretesto sotto cui mascherare la più generale paura di cambiamento, paura esistenziale da sempre presente nell’uomo, ma acuita nel XXI secolo dall’accelerazione evolutiva sociale e culturale. Le cause dietro una tale opposizione sono comprensibili: contrastando il cambiamento si afferma lo status quo, e con esso ciò che ne fa parte – noi. Tuttavia, opporsi al cambiamento nega alle generazioni successive la possibilità di affermazione individuale da noi goduta, paradossalmente privandole di quella stessa esperienza di vita che noi abbiamo vissuto e che ora cerchiamo di difendere. A questo proposito penso sia utile vedersi non come punti infiniti, ma come soggetti finiti parte di una storia che è esistita prima di noi, e che esisterà dopo. In questo modo sarà più semplice ritagliarci un pezzo di storia in cui esser felici, lasciando ad altri dopo di noi la possibilità di fare lo stesso.

A cura di Davide Gobbicchi

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