Fast Fashion e consumo compulsivo

Fast Fashion e consumo compulsivo

‘Fast fashion’ è espressione utilizzata dai rivenditori di moda per descrivere il design che passa rapidamente dalle passerelle e influenza le attuali tendenze della moda.

L’enfasi è posta sull’ottimizzazione di determinati aspetti della catena di produzione; si punta sulla rapidità e sulla economicità della progettazione e della realizzazione, per consentire una vendita a basso costo e, dunque, di massa. Il modello business ‘fast fashion’ è costruito sul desiderio dei consumatori di indossare abiti sempre nuovi. Al fine di soddisfare tale domanda, le aziende del settore offrono un abbigliamento variegato, che insegue le tendenze, a prezzi accessibili.

I materiali più usati dal fast-fashion sono poliestere e cotone, di diversa provenienza, ma parimenti problematici.
Il poliestere deriva dal petrolio ed è il principale responsabile della copiosa presenza di microplastiche in mare. Non è biodegradabile ed è scarsamente traspirabile, quindi non adatto al contatto con la pelle. Insomma, è nocivo per l’ambiente e l’uomo.
Non va meglio con il cotone, che, pur essendo di origine naturale, biodegradabile, traspirante e non inquinante, presuppone processi di produzione e lavorazione che invece hanno un devastante impatto ambientale. Impone l’uso di ingenti quantità di acqua e un uso altrettanto smodato di pesticidi. Di più, la coltivazione intensiva di cotone rivolta al fast-fashion grava enormemente sui bacini idrici dei Paesi in via di sviluppo, traducendosi in rischi di siccità perenne, disboscamenti e rischi per la biodiversità e la qualità del suolo.

Anche la tintura dei capi è altamente dannosa per l’ambiente.
Seconda solo all’agricoltura, l’industria della moda è la maggiore inquinatrice di acqua pulita al mondo.
Con la tintura si dà o si cambia colore al materiale immergendolo in un bagno di liquidi nel quale sono sciolti i coloranti.
L’acqua usata in questo processo è tanta e difficilmente recuperabile. Nei Paesi in via di sviluppo, l’acqua di scarto viene scaricata illegalmente nei fiumi e poi utilizzata per le piante quando non per il consumo umano.

In pochi sono consapevoli dell’impatto ambientale dei propri acquisti, specie quando si tratta di abbigliamento, il settore industriale che maggiormente punta al perenne rinnovo dei prodotti.

Per recuperare, è necessario anzitutto mutare approccio d’acquisto e resistere alle tentazioni del c.d. shopping compulsivo.
È facile che vetrine ben allestite e l’originalità delle nuove tendenze catturino l’attenzione e stimolino il bisogno di accesso a beni non necessari. E si finisce per acquistare abiti che a volte restano non indossati o che non rispecchiano davvero gusti ed esigenze.
Occorre maggiore coscienza nel consumo.

Un’alternativa può essere nel riuso, nell’acquisto di abiti di seconda mano.
Il mercato dell’usato sembra oggi libero del pregiudizio che lo stigmatizzava nel passato e il vintage può rappresentare esso stesso una tendenza, o quanto meno un’abitudine virtuosa. Abiti brandizzati e in buone condizioni sono disponibili anche online a prezzi accessibili.
Per eventi che richiedono abiti costosi ma destinati a un solo utilizzo, v’è anche l’opzione del noleggio.
Un contributo alla tutela dell’ambiente, con il vantaggio del risparmio economico e di un guardaroba meno ingombro e più comodo da usare.

Per non rinunciare all’acquisto di un capo nuovo, si possono prendere in considerazione anche i prodotti della moda sostenibile, realizzati con fibre biodegradabili, materiali riciclati e con uso consapevole delle risorse, senza ricorso a sostanze chimiche o a materiali animali per la produzione dei capi e con garanzia di condizioni di lavoro eque, in sicurezza, contrattualmente ed economicamente sostenibili.

A cura dello staff di Meritocrazia Italia.

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