Le elezioni politiche del 25 settembre sono imminenti, e quasi 570.000 studenti si trovano di fronte ad un dilemma: ritornare a casa per votare o rinunciare al diritto di voto?
L’Italia è uno dei pochi paesi europei in cui i cittadini – eccetto alcune, parziali eccezioni – per votare, devono recarsi nel proprio comune di residenza. In molti casi, per gli studenti fuorisede, diventa complicato, e soprattutto dispendioso, partecipare alla vita politica del nostro Paese.
Il dibattito è aperto da anni; le richieste sono numerose così come, in realtà, le possibili soluzioni, ma ogni volta che sembra comparire un barlume di speranza, e viene presentata una legge per disciplinare la materia, il testo si incastra nel complesso iter legislativo.
Eppure, è da circa un decennio che il voto a distanza è possibile per coloro che risiedono all’estero. In Germania, Austria, Irlanda, Regno Unito, Spagna e Svizzera si può votare per corrispondenza. In Belgio, Francia e Paesi Bassi è possibile delegare il proprio voto. In Estonia è previsto il voto elettronico. Ma il caso più interessante è sicuramente quello della Danimarca, paese con un sistema elettorale molto simile a quello italiano, dove si può richiedere di poter votare anticipatamente: grazie ad un semplice permesso il cittadino può recarsi in un seggio presidiato nel comune di domicilio, e in una data prefissata. Il suo voto verrà inviato, in un secondo momento, al comune di residenza.
I problemi legati a questa mancanza sono innumerevoli: dal costo elevato degli spostamenti, ai tempi richiesti da quest’ultimi, che molti lavoratori e studenti non hanno a disposizione. Ciò significa, concretamente, che verrà negato loro il diritto di voto. E’ giusto che un semplice studente debba spendere almeno 50 euro, se non di più, e perdere due giornate di viaggio per recarsi al seggio? E’ questo il modo in cui lo Stato vuole incentivare il popolo, ed in particolare gli studenti, ad avvicinarsi al mondo della politica? O forse, i partiti hanno qualche interesse ad allontanare i giovani da questo mondo, creando e alimentando un’astensionismo forzato? Anche a questa domanda non abbiamo una risposta certa; le voci dei giovani insoddisfatti, probabilmente, spaventano sia per la loro forza che per la loro veridicità.
Alcune agevolazioni sono state concesse, è vero, come sconti sui treni, o la sospensione delle lezioni, – anche se solo in alcuni atenei – ma non è sufficiente. È solo un contentino che non risolve il problema alla radice. Non ci resta che sperare che lo Stato presti attenzione a tutti i movimenti e le associazioni, nati di recente, che si stanno battendo per l’affermazione di questi diritti, e che ben presto l’Italia segua il modello europeo.
A cura di Emma Lia Brecciaroli