Come può, un’isola situata nel mare cinese del sud di circa 24 milioni di abitanti, giocare un ruolo
chiave per l’equilibrio diplomatico mondiale? La questione Taiwan è uno tra gli scenari più
complessi e sostanziali per gli amanti di geopolitica e per chiunque sia interessato a saperne di più
su quella che potrebbe essere ricordata, negli anni a venire, come la nuova Cuba. Se nel 1962 i
missili inviati dall’allora leader dell’Unione Sovietica Nikita Kruscev all’Avana rappresentarono il
momento di massima tensione con gli Stati Uniti, allo stesso modo, la recente visita di Nancy
Pelosi, Speaker della Camera dei Rappresentanti, a Taiwan, ha infuocato un rapporto già teso tra
Pechino e Washington. Da un lato, il Presidente americano Joseph R. Biden ha lavorato
strenuamente negli ultimi mesi per assicurarsi di arrivare nel modo migliore alle elezioni di
metà-mandato, che potrebbero rimescolare le carte delle maggioranze sia al Congresso che in
Senato; dall’altro lato anche il Presidente cinese Xi Jinping, in vista dell’importante plenaria del
Partito Comunista Cinese in cui potrebbe essere riconfermato alla guida del paese per
un’eccezionale terzo mandato, ha cercato di evitare qualsivoglia implicazione militare. Il consenso
popolare sia per Biden che per Xi non è mai stato stellare, anzi, nel primo caso ha probabilmente
toccato minimi storici; ma a causa di circostanze collaterali in ambo i paesi, come la decisione della
Corte Suprema americana di ribaltare il famoso caso di Roe v. Wade, abilitando gli stati membri a
introdurre legislatura anti-aborto, o l’avvento del nuovo presidente Sud-Coreano Yoon Suk-yeol
che, a differenza del suo predecessore Moon Jae-in, ha deciso di adottare una postura molto più
rigida nei confronti di Pechino, entrambi i leader hanno riguadagnato punti.
Non a caso, la sera del 28 luglio, Xi e Biden hanno avuto una conversazione telefonica di lunga
durata, in cui il Presidente cinese aveva chiaramente avvertito il suo corrispettivo di “non giocare
con il fuoco con Taiwan”. Proprio per questo motivo, ed essendo l’ordine globale già vacillante a
causa della guerra tra Russia ed Ucraina scoppiata lo scorso febbraio, del tentato colpo di Stato ai
danni del Presidente dello Sri Lanka, fuggito prima a Singapore e poi alle Maldive, ed infine delle
forti problematiche alimentari che stanno colpendo l’Africa a causa del conflitto sopracitato, si
pensava che Nancy Pelosi, seconda carica americana, potesse desistere dall’atterrare a Taiwan.
Tuttavia, pur non rivelando mai l’itinerario preciso, l’ottantaduenne Speaker ha deciso di portare
avanti la sua forte politica anti-Cina e, nella serata del 2 Agosto, è arrivata a Taipei, dove ha
incontrato la Presidente di Taiwan Tsai Ing-wen ed il numero uno dell’industria di semiconduttori
dell’isola, a marchio TMSC. A tal proposito, è sostanziale ricordare come i semiconduttori di
Taiwan forniscano un aiuto provvidenziale per la costruzione, tra le altre, di automobili in tutto
l’Occidente. Gli Stati Uniti hanno di recente approvato il Chips and Sciences Act, deliberando per
52 miliardi di dollari a favore della costruzione di fabbriche di conduttori sul proprio territorio. Dato
che i prodotti TMSC sono usati dagli Stati Uniti per l’attrezzatura militare, compresi jet F-35 e
missili Javelin, è facile intuire quali siano state le assicurazioni che la Pelosi ha voluto trattare
personalmente a Taiwan. Durante la sua mattinata di dialogo con Tsai Ing-wen, ha più volte
sottolineato come: “la visita della nostra delegazione onora l’impegno continuo e serio da parte
degli Stati Uniti verso la vibrante democrazia di Taiwan”. Queste parole hanno segnato un punto di
rottura netto con Pechino e, soprattutto, marcato una linea di separazione con quanto affermato da
Biden cinque giorni prima al telefono con Xi, dove era stato detto che: “gli Stati Uniti non hanno
modificato la loro politica”. Infatti, la questione diventa più intrigante: secondo quanto ribadito
anche dal sito internet del Congresso, gli Usa non hanno nessuna relazione diplomatica ufficiale con
Taiwan, ma una robusta relazione non ufficiale. In particolare, viene evidenziato come Washington
intraprenda una chiara politica di “una sola Cina”, confermata dal Taiwan Relations Act, dai tre
U.S.-China Joint Comminques e dalle Six Assurances. Tuttavia, è anche vero che gli Stati Uniti si
oppongono al cambio di status quo sull’isola, se questo dovesse avvenire in modo unilaterale o con
la forza.
Ad ogni modo, la reazione cinese una volta che Nancy Pelosi è decollata verso la Corea del Sud,
dove non ha rilasciato alcun comunicato ufficiale, non si è fatta attendere. È stato messo il divieto
su oltre 2,000 import di cibo, sono state lanciate esercitazioni militari che includono missili
convenzionali e artiglieria a lungo raggio e sono stati fatti volare circa 21 aerei di guerra attraverso
la zona aerea difensiva di identificazione di Taiwan. Nel secondo caso, si tratta delle esercitazioni
che si sono avvicinate maggiormente all’isola nella storia recente. Anche la Corea del Nord,
attraverso il suo Ministro degli Esteri, ha denunciato la visita della Pelosi come “una chiara
interferenza degli Usa in affari interni di altri paesi e una provocazione militare che causa disturbo
della pace e della sicurezza della regione”. Secondo gli emissari di Kim Jong-un, Taiwan “è parte
inseparabile della Cina e siamo pronti ad utilizzare il nostro arsenale nucleare in caso di futuro
conflitto con altri paesi”. Non di meno, l’attacco cinese è stato da subito rimandato al mittente sia
attraverso il Segretario di Stato Antony Blinken che ha etichettato le azioni dell’Esercito di
Liberazione come “ingiustificate, sproporzionate e provocative”, sia dal Governo taiwanese, che ha
definito le esercitazioni una “simulazione di offensiva contro l’isola”. Per non lasciare nulla al caso,
anche il Giappone ha lamentato come alcuni dei missili lanciati dalle coste cinesi, abbiano violato il
proprio territorio.
Indubbiamente la vicenda lascia diversi analisti politici perplessi; internamente agli Stati Uniti, la
visita di Nancy Pelosi ha ricevuto reazioni contrastanti. Naturalmente, l’ex Presidente Donald J.
Trump ha commentato la vicenda con un laconico “cosa ci è andata a fare?”, mentre altri politici
analisti interni alla schiera repubblicana, si sono pubblicamente interpellati sulla convenienza della
decisione presa dalla leader della Camera dei Rappresentanti. Persino il New York Times, giornale
storicamente democratico, attraverso il suo colonnista Tom Friedman si è lasciato andare ad un:
“non credo che l’attuale governo di Taiwan desideri questa visita della Pelosi, in questo momento”.
In aggiunta, l’idea che fino alla sera stessa la leader americana non avesse fatto chiarezza sui suoi
piani di viaggio, ha indispettito ulteriormente Pechino, che ha visto in questo esitare un’ulteriore
provocazione. Pelosi era stata chiara: “divulgare le tappe del viaggio sarebbe pericoloso per me”,
ma non riesco a credere, che in cuor suo non fosse sicura, fin da principio, che la seconda visita
ufficiale di uno Speaker della Camera dei Rappresentati a Taiwan nella storia sarebbe stata la sua.
Era il 1997 quando Newt Gingrich, allora Speaker, aveva fatto tappa a Taiwan che, è bene
ricordarlo, lotta dal 1949 per la sua indipendenza dalla Cina, essendo diventata il rifugio dei leader
del partito Nazionalista, sconfitto nella guerra interna con il Partito Comunista Cinese di Mao
Ze-Dong, che sarebbe diventato il leader della Repubblica Popolare Cinese, stabilita il 1° Ottobre
del 1949.
Dietro alla decisione di Nancy Pelosi ci sono sicuramente ragioni personali, che vanno dal suo
convinto spirito anti autoritarismo Cinese alla volontà di lasciare, terminando il suo mandato,
un’eredità importante, con l’idea che la sua carriera politica abbia cercato di esportare, nel più
completo ed uniforme dei modi, lo spirito democratico e globalista degli Stati Uniti dalla Seconda
Guerra Mondiale in poi. Personalmente mi chiedo però se questo gesto estremo possa aver davvero
portato l’effetto sperato. Sono d’accordo con il presidente Biden, quando rifiuta di interferire con i
piani di viaggio della Pelosi, dato che negli Stati Uniti la separazione dei poteri è molto più forte
che nei sistemi governativi occidentali per ragioni che risalgono al 1800, ma non condivido appieno
l’idea che nel mezzo di una crisi economica e politica, appesantita da una pandemia senza
precedenti e da una nuova potenzialmente in atto (in quanto il vaiolo delle scimmie è stato
dichiarato proprio negli USA emergenza della salute pubblica), insistere stoicamente su corde già
abbastanza usurate sia la soluzione più adeguata. La crescita demografica ed economica della Cina,
fortificata anche dall’iniziativa della One Belt One Road (nuova via della seta), è sotto gli occhi di
tutti, ma non per questo, pur cozzando evidentemente gli uni con gli altri, gli Stati Uniti devono
persistere nel loro approccio isolazionista verso Pechino. Al contrario, sarebbe forse il caso di
lavorare, per massimi principi, su intese, specialmente economiche, che possano cementare la
relazione tra i due paesi. La questione Taiwan, come annunciato dal titolo di questo articolo, è un
paradosso della democrazia. Viviamo nella continua percezione che non vi sia altra alternativa ai
sistemi democratici; ma dati alla mano, è possibile notare come, ad esempio, il livello di
ineguaglianza sociale nella democrazia sia uguale o talvolta anche peggiore rispetto a quello dei
cosiddetti stati o regimi autoritari. Per anni sono state fatte guerre in nome di questo ideale di
governo, senza considerare le caratteristiche culturali, storiche e religiose dei paesi in cui sono state
combattute, spesso invano. Taiwan è un caso davvero unico nel panorama internazionale; la sua
forte opposizione alla riunificazione Cinese è da sempre una colonna portante dei governi dell’isola
ma, fino ad ora, nessuna azione concreta è stata intrapresa. Preferisco non credere che nei giorni a
venire possa scoppiare un altro conflitto; non ne vedo le possibili ragioni. Attorno a Taiwan ci sono
troppi interessi, e l’irrefrenabile sviluppo tecnologico dell’isola potrebbe tornare utile sia alla
sponda Orientale che a quella Occidentale; motivo per cui resto convinto che alla fine si troverà una
soluzione pacifica. Il nostro mondo non ha bisogno di un altro conflitto; non ne ha bisogno Biden,
come non ne ha bisogno Xi, e forse è un bene che la Pelosi, in inverno, non abbia più un potere così
forte tra le sue mani o, per meglio dire, tra le sue valigie.
A cura di Nicola Ragazzi