American Chronicles, ep.1: “Da Kabul a Kiev: Il difficile primo anno della presidenza Biden”

American Chronicles, ep.1: “Da Kabul a Kiev: Il difficile primo anno della presidenza Biden”

Vladimir Putin doesn’t want me to be President. He doesn’t want me to be our nominee. If you’re wondering why — it’s because I’m the only person in this field who’s ever gone toe-to-toe with him.”

Il 22 febbraio 2020, il candidato democratico Joe Biden pubblicava questo tweet. Poco più di due anni dopo, Vladimir Putin ha invaso militarmente l’Ucraina, dando il via a un conflitto che, in termini di tipologia e portata, in Europa non si vedeva dal termine della Seconda Guerra Mondiale (il conflitto in Jugoslavia è il termine di paragone più recente per quanto riguarda il Vecchio Continente, presentava caratteristiche diverse rispetto all’invasione russa di queste settimane).

Il 22 febbraio 2020, mentre il suo team di addetti ai social media si occupava della pubblicazione di questo tweet, Biden difficilmente pensava a un primo anno di presidenza così complesso. Il mondo stava iniziando a comprendere la portata mondiale del Coronavirus, ma una piena consapevolezza della situazione non era ancora presente. Una volta eletto, l’obiettivo principale di Biden era proprio quello di far uscire gli Stati Uniti vittoriosi dalla lotta contro la pandemia. Non a caso, gli sforzi principali, in termini di policy, hanno riguardato l’ambito domestico: non solo gli sforzi relativi alla campagna vaccinale, ma anche il piano economico ambizioso al pari di due illustri predecessori, ossia Lyndon Johnson negli anni ’60 e Franklin Roosevelt negli anni ’30. Il piano, che si componeva di varie articolazioni ed è noto come Build Back Better Act, non è stato ancora pienamente realizzato. Il disegno di legge Build Back Better Act (che contiene investimenti per circa 2.200 miliardi di dollari in energie rinnovabili, espansione del Medicare, educazione, emergenza abitativa e altri settori) è infatti bloccato in Senato a causa dell’opposizione di Joe Manchin, senatore democratico del West Virginia e vero e proprio ago della bilancia in un Senato composto da 50 democratici e 50 repubblicani.

Se il fronte domestico presenta delle complessità, tra cui il compito quasi impossibile di riunire un paese profondamente diviso, a livello internazionale la situazione è perfino più problematica. Le colpe, da questo punto di vista, non possono essere attribuite solo ad un’amministrazione, dato che si tratta di fenomeni complessi che si estendono su un lungo periodo di tempo e vedono la partecipazione di molteplici attori.

Volendo essere riassuntivi, i due fronti più importanti della politica estera di questo primo anno di amministrazione sono il ritiro dall’Afghanistan e l’invasione russa dell’Ucraina. I due aspetti, nella loro sostanziale diversità, sono accomunati da un aspetto: essi certificano il tramonto dell’odine mondiale delineato da George H.W. Bush nell’inizio degli anni ’90. Con il ritiro dall’Afghanistan, Biden puntava non solo a concentrarsi maggiormente sul fronte interno, ma anche a realizzare uno dei grandi obiettivi delle amministrazioni Obama: il Pivot-to-Asia, ossia il cambio di focus (e di impegno politico-militare) dal Medio Oriente all’Estremo Oriente, in modo da fronteggiare adeguatamente la Cina. Il piano di ritiro dall’Afghanistan è stato sviluppato dall’amministrazione Trump (e il disimpegno in Medio Oriente era perseguito anche da Obama, nonostante il coinvolgimento nelle Primavere Arabe), ma è coerente anche con la visione strategica di Biden. Per di più, il ritiro delle truppe dalla guerra più lunga della storia americana è uno dei pochi argomenti in cui c’era un ampio consenso all’interno della polarizzata opinione pubblica americana. Il ricordo più nitido è legato all’insufficiente organizzazione di questo ritiro, culminato nelle scene all’aeroporto di Kabul che sono passate alla storia. L’opinione pubblica ha mostrato forte disapprovazione per il modo in cui il ritiro è avvenuto, ma il sostegno al ritiro non è mai scemato. Dopo due decenni, l’impopolarità dell’impegno militare nella regione mediorientale era più forte anche del ritorno al potere dei Talebani.

Il disimpegno dal Medio Oriente si sta realizzando anche tramite un aumento dell’autosufficienza di Israele nel settore della difesa e dal minore fabbisogno di import di combustibili fossili (gli USA sono ora tra i maggiori produttori mondiali di petrolio e gas, grazie alla cosiddetta Shale Revolution). Il secondo pilastro dell’azione in politica estera, dunque, doveva essere il confronto con la Cina. I primi mesi del 2022, invece, hanno visto il forte ritorno della minaccia rappresentata dalla Russia. L’Europa è una regione nella quale l’amministrazione Obama ambiva ad una riduzione del coinvolgimento (i costanti richiami di Trump alle spese per la difesa dei partner europei non sono iniziati nel 2016, bensì qualche anno prima). La guerra in Ucraina ha ovviamente cambiato gli scenari, ma il ruolo degli Stati Uniti dipende dall’evoluzione di alcuni elementi del conflitto. Ovviamente, gli USA forniranno aiuto all’Ucraina e guidano la coalizione internazionale per isolare politicamente e danneggiare economicamente la Russia. Dal punto di vista militare, però, il conflitto può portare a un forte aumento della spesa per la difesa dei Paesi europei. La Germania, ad esempio, in una settimana ha cambiato sostanzialmente la sua tradizionale strategia: non solo, infatti, il governo del cancelliere Scholz fornirà armi all’Ucraina, ma aumenterà considerevolmente i suoi investimenti per la difesa. Nello scenario di una ritrovata minaccia russa, gli Stati Uniti dovranno considerare l’Europa di nuovo come uno scenario chiave a livello globale.

Per di più, l’invasione russa dell’Ucraina può potenzialmente essere interconnessa con la strategia di contenimento della Cina. L’atteggiamento di Pechino nei confronti della guerra non è netto e definito: pur esprimendo un richiamo al principio di autodeterminazione e sovranità, il messaggio cinese non presenta una condanna esplicita dell’invasione russa e contiene, al contrario, accuse agli USA e all’espansione verso oriente dell’Alleanza Atlantica. Inoltre, l’economia cinese potrebbe essere funzionale per ridurre il peso delle sanzioni imposte alla Russia (si pensi, ad esempio, al gasdotto che Gazprom realizzerà in Cina, anche se ovviamente la realizzazione di un gasdotto non è un progetto a breve termine). Il quadro che potrebbe emergere, dunque, è quello di un rafforzamento del legame tra Russia e Cina. In questo senso, la Russia sarebbe il junior partner; un ruolo storicamente sgradito al regime di Mosca, ma che potrebbe essere inevitabile alla luce delle sanzioni occidentali.

Parlando di legame tra Cina e Russia, il timore espresso da diversi analisti è quello di un’invasione cinese di Taiwan. Pur non essendo membro NATO, l’intervento militare americano in caso di invasione di Taiwan è considerato come quasi inevitabile. L’ipotesi di un conflitto diretto tra USA e Cina è lo scenario che nessuna amministrazione americana può permettersi. Per questo motivo, gli USA hanno recentemente posto particolare attenzione alla deterrenza nell’Oceano Indiano. Nella giornata del 1°marzo, ad esempio, il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha commentato in questo modo il passaggio di una nave militare americana nello Stretto di Taiwan: “If United States is trying to threaten and pressure China with this then we need to tell them that in the face of the Great Wall of steel forged by 1.4 billion Chinese people, any military deterrence is but scrap metal”.

A conclusione di tutto ciò, è opportuno segnalare la forte polarizzazione dell’opinione pubblica americana anche nei confronti di un’invasione militare esplicita come quella russa in Ucraina: l’azione di Biden è approvata solo dal 27% dei repubblicani (la percentuale dei democratici sale all’84%). Un dato non sorprendente, se si considera che Tucker Carlson – conduttore del programma politico più visto d’America – ha commentato l’invasione di uno Stato sovrano dicendo: “Has Putin ever called me a racist? Has he threatened to get me fired for disagreeing with him? Has he shipped every middle-class job in my town to Russia?”

A cura di Stefano Pasquali

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