Alcool, sesso, droga e fama. Ma allo stesso tempo anche depressione, amare risate e un cavallo. Questo il modo più immediato per descrivere il fenomeno di BoJack Horseman.
Ciò di cui si parla, infatti, è l’omonima serie prodotta da Netflix, il quale l’8 settembre scorso ha rilasciato la quarta stagione di questo successo di pubblico e critica in formato cartoon.
Ad ogni modo, come in molti sapranno, riuscire a mantenere alto il livello di un prodotto del genere è un lavoro faticoso e non sempre possibile, soprattutto giunti ormai alla quarta stagione, dove si cominciano a tirare un po’ le somme di ciò che è stato e ciò che potrà essere di uno show.
E allora, ecco cosa è venuto fuori da ciò che è stato messo in onda:
Dove eravamo:
Chiunque abbia visto la terza stagione ricorderà senz’altro il suo finale straziante: la morte di Sarah Lynn, la fuga di un disperato BoJack che vede sbattersi in faccia tutte le porte che lui stesso ha in precedenza chiuso (volontariamente o meno), la ricerca di una salvezza o per lo meno di una via di scampo da questa scia di orrore emotivo che il protagonista sembra portarsi dietro. Situazioni toccanti e che hanno fatto scendere anche qualche lacrimuccia. Appariva, quindi, legittimo aspettarsi, all’alba di questo nuovo capitolo della storia, di trovare una sorta di proseguo di trama sulla falsariga del turbinio sentimentale innescato dai fatti precedenti. Cosa che è venuta a mancare. I punti di pathos non mancano e chi ha la tendenza a commuoversi troverà comunque pane per i suoi denti, ma ciò che viene meno è un adattamento della trama alla drammaticità dei fatti accaduti. La storia inizia con la scomparsa di BoJack, per poi proseguire quasi senza più toccare i motivi che avevano spinto il protagonista a questo allontanamento, volendo far dimenticare le ferite subite. Scelta, probabilmente, rivolta a una necessità di mantenere un tono nonostante tutto leggero, ma che riesce a creare un fastidioso senso di mancata omogeneità, un voler andare avanti troppo approssimativo, che non ha dato modo ai personaggi di maturare e affrontare davvero quanto era appena stato vissuto.
Il classico “Luke, io sono tuo padre”:
Quattro stagioni sono tante e i produttori e gli sceneggiatori sono esseri umani come tutti noi, quindi non deve essere giudicata con eccessiva cattiveria l’evidente mancanza di nuove idee che impernia tutte queste 12 puntate. Ciò che, invece, può essere un po’ più vivacemente criticato è il ricorso a cliché ormai banali persino per Beautiful, utilizzati come impulso d’animazione. Classico esempio su tutti, la scoperta di una sedicente figlia illegittima del protagonista, intenzionata a scoprire le sue vere origini. Tralasciando la piattezza di questo non tanto imprevedibile sviluppo, ciò che fa perdere un bel po’ di punti è il fatto che questo espediente trito e ritrito sia quasi uno dei soli elementi trascinanti dell’intera trama, in grado, alla fine, di smuovere un po’ le acque, fin troppo stagnanti a causa dell’immobilità di sentimenti e azioni marchiata a pelle sui personaggi tutti.
I personaggi secondari:
Abbiamo già parlato della mancata evoluzione relativa ai vari elementi del racconto. Ovviamente, aspettarsi crescite caratteriali incisive nel corso di una sola stagione sarebbe stupido oltre che ingenuo, ma occorre tener presente che, con la terza stagione, i produttori ci avevano lasciato con degli individui ormai arrivati ad un punto di svolta della loro vita, positivo o negativo che fosse. Ora, invece, l’evoluzione che ci aspettavamo è stata come posticipata e, in un certo qual modo, tutti i personaggi secondari, nel caso in cui non subiscano una palese regressione, vengono marginalizzati come mai prima. Esempi su tutti, un Mr. Peanutbutter sempre più macchietta, sempre più lontano (e soprattutto vuoto); una Diane, introdotta all’inizio quasi come coscienza e parte razionale del protagonista, ma ormai completamente in balia di emozioni del tutto prive di logica e contesto; infine un Todd incapace di calcare il palco da protagonista persino nelle puntate interamente incentrate su di lui, probabilmente a causa del tentativo di voler semplificare eccessivamente un ruolo così controverso e particolare attraverso la caratterizzazione dell’asessualità. Unico personaggio secondario in grado di mantenere una buona presa sul pubblico è Princess Carolyn, determinata come sempre tanto nelle dinamiche dello svolgimento del racconto quanto in quelle dell’economia della serie, ma a parte qualche stella isolata, la volta celeste dei co-protagonisti resta buia e senza punti di riferimento.
Beatrice, la madre:
Interessantissimo elemento introdotto in questa stagione è quello del passato del cavallo BoJack, impersonato, finalmente, dalla comparsa di un personaggio controverso e oscuro quanto quello di Beatrice, l’odiatissima madre. Tralasciando il freudiano tentativo di voler creare una logica intorno al caos e alla distruzione che contraddistinguono la vita del protagonista attraverso la presenza di una figura materna, appare molto interessante il modus operandi con cui questo personaggio viene utilizzato. Beatrice, infatti, non è solo strumento per l’analisi dei turbamenti di BoJack, come eravamo stati abituati a vederla attraverso le vecchie puntate, ma diventa essa stessa quasi protagonista, un vaso di pandora che va ascoltato per poter arrivare a una soluzione o, più propriamente, a una comprensione maggiore di ciò che è stato e sta succedendo. L’arrivo di questa straordinaria figura non è solo, però, il modo per smascherare un mostro e scoprire cosa l’ha portato ad essere tale, ma anche per giocare con il tempo, per farlo intrecciare e distorcere al fine di accostarlo al presente e portare lo spettatore a capire che per quanto le sofferenze si presentino in forme diverse nel corso dei vari momenti della vita di ognuno, il sentimento che ne viene fuori resta lo stesso per tutti, indistintamente.
BoJack:
Arriviamo, infine, alla vera star dello show, il Signor BoJack Horseman. Tenendo conto di quanto già detto in precedenza e appurato che l’evoluzione caratteriale che un po’ ci aspettavamo dallo scorso finale è venuta a mancare, è necessario comunque approvare questo anti-eroe che si è subito fatto amare dal pubblico di Netflix. Certamente sarebbe stato molto appropriato poter far tirare qualcosa in più fuori da questo personaggio, ma esso risulta ancora capace di toccare corde profondissime della nostra personalità: il generale sentimento di sentirsi, in cuor proprio, delle persone orribili e causa di sofferenza altrui, di realizzare che i sogni e le ambizioni non verranno mai ad esistere, guardando in faccia la solitudine più profonda, il vero demone che perseguita un po’ tutti quelli della nostra generazione. Ma allo stesso tempo l’arroganza più immotivata e ostinata, l’accettazione dell’impossibilità di cambiare e, a prescindere da tutto, la naturale propensione a giustificarsi un po’ per ogni errore commesso, come ognuno fa. Nei tempi antichi, autori come Fedro utilizzavano gli animali per impersonare i vizi umani e fare la morale alla gente, mentre adesso, nonostante le premesse siano rimaste invariate, il fine ultimo di questo cavallo non è insegnarci ad essere migliori, ma farci capire quanto siamo peggiori e, in fin dei conti, sappiamo di esserlo e ci va bene così. Perché arrivare a riflettere su noi stessi e decidere di voler migliorare a seguito della visione di un cartone animato viene quasi ad essere una reazione superficiale rispetto al voler raffigurare e mostrare a pieno quanto di marciò c’è in ognuno di noi.
In conclusione di questo breve excursus su quanto prodotto in questo ultimo tassello di storia, occorre pur sempre promuovere la serie, ma non a voti alti. La vera mancanza, che fa sì che per la prima volta si possa parlare di un andamento calante, non è neppure rappresentata dalla carenza di idee, quanto dal voler nasconderla sotto strati di banalità. E in una serie come questa, che ci ha posti contro la banalità sociale a cui eravamo stati abituati tramite il lavoro incessante e spregiudicato della macchina di Hollywood, risulta tremendamente antitetico, quasi un tradimento che non può essere perdonato troppo a cuor leggero. Certo, a onor di cronaca, è necessario comunque sottolineare come lo stile grafico resti tra i più interessanti, che, come già nelle stagioni scorse, BoJack Horseman riesce ad essere perfettamente attuale e in linea con le varie mode lanciate dai social e, ovviamente, va riconosciuto che è uno dei pochi lavori che meritano riscontro nell’ambito delle produzioni di serie animate, a maggior ragione per la forte presa che in questi anni ha saputo mantenere sul pubblico. Tuttavia, poteva essere di più, speravamo fortemente che desse di più e il non averlo fatto non può lasciare indifferenti.
Alla luce di questa piccola ma pur sempre presente delusione, si confida nella quinta stagione, nell’ipotesi che quanto appena visto non sia l’inizio della fine ma solo una temporanea perdizione, un lieve rilassamento che porterà a un ritorno in pista interessante e agguerrito come in precedenza.
Saranno ambizioni troppo azzardate?
A cura di Giulia Nino
Grandissima recensione, se così vogliamo definirla. Bojack rappresenta ancora una chicca di alto livello nel panorama dell’animazione, ma è giusto ammettere che questa stagione ha un po’ mollato la carica della precedente. Sperando nella prossima, grande articolo!
Grazie mille Matteo! Sono felice che l’articolo ti abbia colpito e soprattutto che tu abbia deciso di commentarlo. Continua a seguirci!