Potenziare il governo significa combattere l’instabilità che caratterizza il nostro sistema politico, particolarmente frammentato e lacerato da tensioni interne; è un operazione che va svolta con la massima cura, in virtù del fatto che aumentare le prerogative del governo significa concedere alla persona che lo presiede e ai ministri che lo compongono un quantitativo di potere maggiore. Spesso a uomini politici come Craxi, o come Renzi, venivano attribuite da parte dell’opinione pubblica tendenze autoritarie, dato che hanno proposto riforme volte a rafforzare l’esecutivo (Craxi era un presidenzialista).
Non voglio entrare nel merito, non mi interessa valutare la qualità dei progetti presentati da questi due uomini politici in particolare, difatti quando mi riferisco a questo tema preferisco ricordare Piero Calamandrei, padre costituente a favore del presidenzialismo, forma di governo che inevitabilmente potenzia l’esecutivo e lo rende più stabile. Forse, nel lontano 1946, egli fu il più lungimirante, il più illuminato. Gli altri padri costituenti, comprensibilmente impressionati dal ventennio fascista (il cosiddetto complesso del tiranno), hanno disegnato lo scheletro di un apparato istituzionale che prevede l’equa redistribuzione del potere fra i vari organi costituzionali, ed un governo sottoposto a numerosi vincoli e con una libertà di movimento fortemente limitata; il principio di separazione dei poteri fu applicato con accuratezza ossessiva e cura religiosa. Dopo la morte di De Gasperi, si è innescato un processo degenerativo che non si è ancora esaurito; la creazione delle correnti, la nascita del sistema clientelare e tangentizio, la diffusione della corruzione nel settore pubblico e lo strapotere del crimine organizzato. Tutto questo chiaramente non va imputato alla fragilità del governo e a quell’instabilità che ci impone continui cambi al vertice, ma potenziare l’esecutivo significa affrontare le sfide che oggi la Storia ci mette davanti con maggiore rapidità e decisione, attraverso la sostituzione di un modello certamente pregevole e virtuoso, ma alla prova dei fatti difettoso: la classe dirigente della prima Repubblica ha tradito lo spirito dei padri costituenti e calpestato l’etica degasperiana che avrebbe dovuto ispirare i successori dello statista trentino, velocizzando quel processo degenerativo di cui parlavamo prima. La Costituzione va cambiata, ma solo parzialmente. La prima parte del testo costituzionale è una reliquia, un documento sacro, un opera raffinata e nobile che consacra diritti inalienabili e principi guida per le generazioni di ogni tempo. Modificarne solo la seconda parte significa potenziare il governo (cambiandone la forma) e mantenere una cornice costituzionale (fornita dalla prima parte, rimasta intatta) che possa limitare la discrezionalità degli individui che acquisiscono questo maggior quantitativo di potere. Ma come modificare la seconda parte della Costituzione? Attraverso due operazioni, parallele: la prima l’abbiamo già approfondita, prevede l’ampliamento delle prerogative dell’esecutivo. La seconda consiste nell’aumentare il livello di democraticità delle istituzioni, anche parlamentari; in questo modo risolviamo numerose problematiche dato che oltre ad ingabbiare il potere in una cornice costituzionale rigida e inflessibile assicuriamo alle masse strumenti di controllo diretto sull’indirizzo politico. L’esempio principe è l’elezione diretta del capo del governo: un leader che gode di piena legittimazione popolare, guida un esecutivo forte e stabile ed esercita il potere limitato dai vincoli costituzionali. Oggi le istituzioni sono fragili e i governi instabili; eppure il livello di democraticità del nostro sistema politico è estremamente basso. Il presidente del Consiglio non viene eletto direttamente dal popolo, ma selezionato attraverso complesse trattative fra partiti volte a costruire coalizioni, e il sistema delle liste bloccate impedisce ai cittadini di esprimere una preferenza nei collegi plurinominali. Tale potere appartiene alle segreterie di partito, che stabiliscono e determinano l’ordine dei candidati nella lista. Che senso ha mantenere un impalcatura istituzionale che ha legittimato un regime partitocratico, dove le formazioni politiche si spartiscono le poltrone e il corpo elettorale è libero soltanto il giorno in cui è chiamato a votare?
Articolo a cura di Michelangelo Mecchia