“Vi presento il nostro prossimo assessore all’Ambiente”, annuncia Jole Santelli, neo governatore della Calabria, parlando alla Camera dei Deputati.
Dietro di lei un uomo mascherato, ma non per carnevale. Ha cinquantanove anni, è toscano ed è un militare. Il suo nome è Sergio de Caprio, molti lo conoscono come Capitano Ultimo, il suo nome riecheggia da anni nel confuso mormorio popolare.
È il 15 gennaio 1993. Capitano Ultimo diventa, in un attimo, il personaggio più discusso di tutta la cronaca italiana. Ha appena arrestato Totò Riina, boss di Cosa Nostra e capo della malavita corleonese.
Viene raccontata a lungo la storia di uno Stato che, quel giorno, sferra un duro colpo alla mafia, mettendo le manette al suo principale punto di riferimento.
Però il tempo passa, e dalle folte carte del tribunale emerge un’altra verità. Si inizia a parlare di trattativa Stato-mafia, tra i tanti nomi coinvolti c’è anche quello di Sergio de Caprio.
La trattativa nasce sotto il Governo Amato nel 1992, a seguito della morte di Falcone. I mafiosi, dopo la condanna subita da molti esponenti nel Maxiprocesso, hanno mostrato all’intera nazione, con la stagione delle stragi, il loro potere distruttivo. La classe politica inizia a preoccuparsi.
Il Ros dei Carabinieri, l’unico organo investigativo dell’Arma con competenza sulla criminalità organizzata e sul terrorismo, prende i contatti con Vito Ciancimino, che dai magistrati viene definito “la più esplicita infiltrazione della mafia nell’amministrazione pubblica”.
Ha così inizio una lunga serie di accordi tra due organi ufficialmente nemici, Stato e Cosa Nostra, che in realtà, nelle segrete stanze dei palazzi del potere e nei celati covi siciliani, interloquiscono giorno e notte cercando una soluzione convenevole ad entrambi.
Il primo punto di svolta della trattativa arriva il 19 luglio 1992, giorno della morte di Paolo Borsellino. Il giudice palermitano viene ucciso per un motivo ben chiaro: con lui tra i piedi, sempre più vicino alla scoperta del dialogo tra lo Stato del quale era servitore e l’organizzazione che solo qualche settimana prima aveva brutalmente eliminato Falcone, il suo miglior amico, la trattativa potrebbe saltare.
Le autorità iniziano ad avere paura e così Riina si convince del fatto che lo Stato sia pronto a scendere a patti. Pianifica gli attentanti successivi e nel frattempo, tramite Ciancimino, fa avere un messaggio ai rappresentanti delle istituzioni.
Dodici richieste compongono le righe del suo papello. Revisione della sentenza del maxi-processo, annullamento dell’articolo 41 bis sul carcere duro, riforma della legge sul reato di associazione mafiosa, riforma della legge sui pentiti, riconoscimento dei benefici dissociati per i condannati per mafia, arresti domiciliari dopo i 70 anni di età, chiusura delle super-carceri, carcerazione vicino alle case dei familiari, abolizione della censura sulla posta dei familiari, misure di prevenzione e rapporto con i familiari, arresto soltanto in flagranza di reato e defiscalizzazione della benzina in Sicilia.
In cambio, Ciancimino promette ai Carabinieri di consegnare Riina alle autorità. Ad inizio 1993, dopo ventiquattro anni di latitanza, il boss di Corleone viene catturato ed arrestato davanti alla sua villa.
Il Ros, però, non perquisisce l’abitazione di Riina. C’è il rischio, entrando, di trovare una copia del papello e disvelare la trattativa. Preferisce così tornare in seguito, quando gli uomini fedeli a Totò hanno già ripulito l’immobile.
Forse per uno strano caso del destino, o forse perché terrorizzati dall’idea di una possibile offensiva, i politici di vertice del governo Ciampi, insediatosi il 29 aprile 1993, iniziano ad esaudire le richieste di Riina. Il ministro di Grazia e Giustizia Conso, a fine ’93, decide di non rinnovare circa 334 provvedimenti di 41 bis, legge depositata in Parlamento dopo la morte di Falcone e approvata soltanto dopo quella di Borsellino.
La mafia sembra tenere sotto scacco le autorità e pianifica nuovi attacchi.
Il più importante è quello previsto alla fine di gennaio del 1994, di fronte allo Stadio Olimpico. L’obiettivo, stavolta, sono i carabinieri, che secondo il piano verranno fatti saltare in aria in occasione della partita tra Roma e Udinese. L’esplosione, però, non avviene. I picciotti hanno un problema tecnico con il telecomando e non riescono a far scattare l’ordigno. L’evento viene quindi rinviato a data da destinarsi.
Succede però che, proprio in quei giorni, in un ufficio di Milano Dell’Utri e Berlusconi fondano un nuovo partito, Forza Italia, con il quale decidono di entrare in politica.
Sarà una coincidenza, ma dopo l’annuncio della discesa in campo del patron del Milan, gli uomini di Cosa Nostra vengono richiamati e l’attentato all’Olimpico annullato.
Non c’è più bisogno di tritolo, morti e violenza, pensano dai rifugi siciliani.
Con il partito creato del cavaliere, che dal 1974 fino almeno all’anno del suo primo governo versa periodicamente ingenti quantità di denaro nelle casse dei mafiosi, gli uomini di Riina sanno di avere una via preferenziale di accesso a quel potere politico che, sin dalla nascita, hanno sempre desiderato possedere.
Articolo a cura di Nicola Corradi