È il 24 marzo e alla Casina Rossa, un centro sociale di Garbatella, si tiene la presentazione del libro Il corpo del reato di Carlo Bonini. Al tavolo con lui ci sono Ilaria Cucchi, sorella di Stefano; Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi; Grazia Serra, nipote di Francesco Mastrogiovanni; Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International.
Il titolo del libro è forte e di una semplicità disarmante, come la storia che racconta. La storia di Stefano Cucchi. Bonini spiega che è il libro a cui è più affezionato e a cui ha dedicato più tempo. È una vicenda che va oltre se stessa, in cui emergono tutte le contraddizioni tra i cittadini e le istituzioni. Prima fra tutte, la difficile ferita che si deve rimarginare quando lo Stato abusa.
Per Fabio Anselmo c’era un altro aspetto: rovesciare un tavolo su cui era posto un contentino, seguire una falsa verità per tacitare le coscienze di tutti. “Era un drogato, se l’è meritato”. E invece no. Pagare lo scotto di un’assoluzione per insufficienza di prove è comunque meglio di una sentenza che avrebbe attribuito le cause della morte alla responsabilità medica. Perché lo Stato non vuole processare se stesso.
Per un avvocato che ha già seguito il caso Aldrovandi, la storia di Stefano sembrava un orribile déjà vu, ma pensava di essere pronto per ciò che avrebbe trovato. Invece, ha scoperto che a certe storie non ci si abitua mai.
Ilaria Cucchi ha scoperto uno Stato che chiama le famiglie a chiedere giustizia, uno Stato ben diverso dai quello dei valori che le avevano insegnato. Uno Stato in cui viene processato il morto. Uno Stato incarnato dalla polizia penitenziaria che dice “Beh controlli, le carte sono in regola”. Uno Stato che considera cittadini di serie A e di serie B, fino ad arrivare a coloro che non considera neanche: gli esclusi, gli emarginati.
Uno Stato che fa compiere fatiche immense ad una famiglia che per anni ha chiesto, e chiede ancora, giustizia per un figlio considerato un escluso.
Ilaria ha ragione: le famiglie non dovrebbero sostituirsi allo Stato. Non dovrebbero essere le famiglie a chiedere giustizia. Poi si interrompe e, osservando le persone che si sono riunite per ascoltarla, pone un domanda a cui nessuno sa dare una risposta.
– Ma è possibile che nel nostro Paese ci sia bisogno di eroi? –
Con questo interrogativo passa la parola a Grazia Serra, nipote di Francesco Mastrogiovanni, ricoverato per 90 ore in TSO senza avere né cibo né acqua. I medici che lo avevano in cura lavoreranno ancora grazie alla pena ridotta. Non solo: i giudici che hanno emesso il verdetto si giustificano sulla base del fatto che la pratica di legare i pazienti sia diffusa in altri ospedali italiani, dunque bisogna tenerne conto. Certo, perché ciò non si ripeta mai più.
Riccardo Noury si concentra su come la tortura, contrariamente a quanto pensiamo, esista ancora nel nostro Paese. Sono storie come quella di Stefano Cucchi, di Francesco Mastrogiovanni e di Federico Aldrovandi. Storie che sembrano così lontane da noi, ma in realtà sono molto più vicine di quanto pensiamo. Perché facciamo tutti parte della popolazione che lo Stato dovrebbe proteggere invece di abusare. Perché, contrariamente a quanto sembra, siamo tutti cittadini allo stesso modo. E perché potremmo potenzialmente diventare tutti corpi del reato.
Alla fine della conferenza è stato possibile realizzare un’intervista a Carlo Bonini e, successivamente, a Ilaria Cucchi e all’avvocato Fabio Anselmo
Intervista a Carlo Bonini
D: Oltre al caso Cucchi ha scritto anche Acab, che analizza la figura della polizia e delle istituzioni in modo molto complesso. Da Acab viene fuori che la polizia sembra un’arma programmata ad orologeria, verso un nemico non meglio identificato, pronta ad esplodere in ogni momento. Per quanto riguarda il caso Cucchi invece, emergono delle figure di persone che sono pronte a scagliarsi con altri che considerano di serie A o di serie B. Secondo lei, qual è il ruolo che stanno assumendo le istituzioni in questo Paese e quale in realtà dovrebbe essere?
R: Domanda molto interessante che meriterebbe una risposta definitiva, che purtroppo non c’è. Nel senso che c’è in parte. Le istituzioni purtroppo non hanno assunto rispetto a questa questione complicata e complessa, che ha a che vedere, vedi Acab, con tutte le contraddizioni e la complessità di quello che si muove nella pancia delle forze dell’ordine del nostro Paese, e dall’altra hanno a che fare con la percezione comune della doppia cittadinanza. Rispetto a tutto questo ci sono questioni che si sono aperte in Italia nel luglio del 2001 con il G8 di Genova. È stato quello lo spartiacque che sedici anni fa ci ha spalancato di fronte questo abisso che questo Paese riteneva fosse consegnato alla Storia. Stasera abbiamo risentito parlare di tortura per quanto riguarda il caso Regeni, ma non dobbiamo dimenticare che nel 2001, nei giorni del G8 di Genova, una caserma della polizia stradale adibita a prigione volante per manifestanti fu un luogo di tortura, come è stato accertato da una sentenza della magistratura. Le istituzioni rispetto a questo non hanno mai affrontato la questione e dunque non hanno mai assunto una posizione diversa, che non fosse quella di dire “Lasciamo che la magistratura e i processi penali facciano il loro corso”, riducendo le questioni ad episodi isolati e sporadici su cui era la magistratura penale a dover fare luce. È stato, e credo sia tuttora, una risposta assai poco lungimirante, tanto è vero che questi episodi iniziano a ripetersi e a moltiplicarsi, probabilmente perché molti cittadini non hanno più paura di denunciarli, o hanno la percezione che forse denunciarli non porterà al nulla, ma ad ottenere qualche risultato. Questo penso che si possa sicuramente dire oggi rispetto alla domanda che mi facevi.
D: Rispetto invece al ruolo del giornalista in tutto questo contesto, cosa dovrebbe fare secondo lei?
R: Il giornalista deve raccontare. Non dico la verità, perché la verità è un concetto nobile e anche un po’ spaventoso, nel senso che la verità con la V maiuscola è sempre molto difficile da afferrare. Il giornalista ha il dovere di dare conto di ciò che è accaduto, di farlo con onestà intellettuale, il che significa senza censurare o censurarsi. Senza piegare i fatti alle proprie convinzioni. Credo che debba avere il coraggio e la forza di chiamare le cose con il loro nome. Il giornalismo italiano dovrebbe iniziare ad avere la forza di chiamare le cose con il loro nome. Spesso può sembrare una banalità, ma in un Paese come il nostro rischia di diventare rivoluzionario.
D: Considerando soprattutto il problema di fake news e di querele che possiamo osservare, secondo lei come si può gestire questo tipo di dicotomia?
R: Cominciando a chiamare le cose con il loro nome. La cultura della post-verità, la cultura pot-fattuale ha come presupposto l’arretramento del giornalismo, la timidezza del giornalismo, non solo in Italia, a chiamare le cose con il loro nome. Questo ha aperto uno spazio in cui si è potuto fissare il presupposto della cultura delle fake news e delle post-verità, per cui i fatti non sono più tali, ma diventano opinioni. Diventano punti di vista. Allora se un fatto diventa un’opinione o un punto di vista, tutte le opinioni e tutti i punti di vista sono legittimi. Dunque, tutti i fatti sono possibili. Dunque, anche fatti incongruenti l’uno con l’altro. Perché poi ad un certo punto dobbiamo stabilire se questo sia un albero o un lampione, giusto? Ma se noi cominciamo a dire che il fatto che sia un albero è un’opinione perché un fatto è un’opinione, allora può essere sia un albero che un lampione. E da qui non si va da nessuna parte.
D: Se non a chiamare albero un lampione.
R: Appunto.
D: Un’ultima cosa: differenze e somiglianze nel caso Cucchi e nel caso Regeni. Cosa hanno in comune questi due corpi del reato?
R: Sono due storie umane diverse. Erano due ragazzi pressoché coetanei, ma con contesti familiari, geografici e aspettative diverse rispetto all’esistenza. Uno era un cittadino del mondo studente di Cambridge, l’altro era un ragazzo che aveva un passato di tossicodipendenza molto serio, che non riusciva ad uscire dalla sua condizione di marginalità sociale in cui quest’ultima lo aveva messo – nonostante gli sforzi della famiglia, nonostante gli sforzi della sorella -. Uno è morto nelle circostanza che sappiamo: in un ospedale pubblico italiano e quindi in un Paese democratico. L’altro è morto in un buco, torturato da un regime militare antidemocratico. Quindi sono due vicende che seguono due traiettorie diverse. Cos’hanno in comune? Hanno in comune il fatto che in entrambi i casi il corpo di questi ragazzi, la materialità del corpo di questi ragazzi è stata testimone della verità. Quei due corpi hanno consentito di arrivare a una verità. Hanno raccontato quello che gli era accaduto. L’altro punto che hanno in comune è che entrambi i corpi hanno evidentemente subito un abuso, in forme e in gradi diversi. Le violenze esercitate su Giulio Regeni non hanno nulla a che vedere con le percosse e le lesioni inflitte a Stefano. Le questioni che sollevano però si sovrappongono, perché ripropongono sempre il tema del rapporto tra l’individuo e lo Stato nel momento in cui viene violato quel principio fondante e fondamentale che è il rapporto di affidamento e di fiducia che un cittadino deve necessariamente avere nei confronti dello Stato e che giustifica il fatto che poi lo Stato possa esercitare nei suoi confronti quel monopolio della forza in una cornice di regole e garanzie. Se quella cornice salta, se il monopolio della forza diventa monopolio dell’abuso o dell’arbitrio, è finita la democrazia. Come diceva Sant’Agostino, e come scrivo nell’epigrafe del mio libro, “uno stato di diritto senza diritto è una banda di briganti”.
Intervista a Fabio Anselmo
D: Ad un certo punto ha dichiarato di trovarsi di fronte ad un punto di rottura, di sentirsi matto per quanto sembrava difficile dimostrare quanto fosse semplice questa vicenda. Cosa l’ha spinta a continuare?
R: Il credere nella verità. La famiglia Cucchi cercava solo questo. Era libera da speculazioni di carattere economico o giuridico. Questo modo di fare l’avvocato mi piace perché è un modo di fare l’avvocato per la ricerca della verità. Il tecnicismo, la regola processuale, le difficoltà incontrate sono tutte in vista di uno scopo: quello di rimanere aderenti alla verità e alla realtà dei fatti. Questa è l’unica forza che ho avuto in questa vicenda, quella di cercare di rimanere sempre vicino alla verità dei fatti. Qualche volta ho vacillato perché eravamo da soli e quasi quasi sembrava che questa verità non fosse neanche più vera. Sembrava fosse vera solo nelle nostre aspirazioni e nei nostri cuori. In realtà poi guardare il corpo di Stefano, le sue foto e quello che gli è successo ci faceva tornare immediatamente con i piedi per terra. Questo era un processo che serviva e servirà a raggiungere la verità per ridare la dignità ad una morte che questo paese ha cercato di far passare come una morte senza nessun significato. Senza nessun valore. Una morte di una persona che tutto sommato non valeva niente per il nostro Paese. Questa ricerca della verità resa spesso difficile, addirittura vana, ha accresciuto sempre di più la rabbia. La voglia di verità, la rabbia e il senso di frustrazione. Perché questa verità in questi anni spesso si è allontanata sempre di più lasciandoci nella nostra solitudine. La solitudine di quelli che capivano di essere rimasti i soli innamorati di quello che era veramente accaduto a Stefano. Innamorati si fa per dire ovviamente. Questo è stato il motore di tutto.
D: Cosa le ha lasciato umanamente questa vicenda?
R: Quello che mi rimane è un po’ di orgoglio per aver resistito. Quando mi volto indietro e vedo quello che è successo, quello che è stato fatto in questi anni non mi sembra di averlo fatto io: mi sembra che lo abbia fatto qualcun altro. Mi sembra di guardare un’altra persona, non me stesso. E un po’ di orgoglio lo provo. L’atteggiamento di questa famiglia mi ha sempre aiutato perché è una famiglia che non ha mai fatto calcoli, che si è affidata a me e con cui soprattutto si è creato un rapporto di lotta comune. Non è usuale devo dire.
Intervista a Ilaria Cucchi
R: Riprendo da quello che ha detto Fabio. Se l’avvocato non si è mai arreso è grazie a noi, a mio padre in particolare. Dopo la sentenza di secondo grado lo ha abbracciato mentre lui piangeva e gli ha detto “Dai non ti preoccupare Fabio, non è finita qui”. Ora questa è una battuta ovviamente. Dopo la sentenza di secondo grado eravamo sconvolti. La sentenza assolveva tutti dopo cinque anni e oltre di processi devastanti. Nessuno di noi, né io, né mia madre, né mio padre ha pianto. C’era più la rabbia, ma non il pianto. Fabio si è messo seduto fuori, su una panchina proprio davanti all’entrata dell’aula del tribunale e ai lati ci siamo seduti mio padre ed io. Ad un certo punto vediamo questa scena: Fabio che si sposta gli occhiali, si mette la testa fra le mani e inizia a piangere. Mio padre gli mette la mano sulla spalla e gli dice “Dai Fabio che non è finita qui”. Io dopo un po’ intervengo “Sì effettivamente Fabio noi oggi abbiamo vinto”. Fabio mi guarda e pensa “Questa è impazzita, stavolta mi sono giocato la cliente definitivamente” perché mi risponde “No Ilaria, non abbiamo vinto. Questa volta abbiamo perso, ora te lo spiego. Abbiamo perso, abbiamo perso alla grande perché sono stati tutti assolti”. E io continuavo a ripetergli che invece avevamo vinto. Avevamo vinto perché in quel momento dove la giustizia riconosceva il suo fallimento, in realtà tutti fuori da quell’aula avevano perfettamente capito cosa era successo a mio fratello. Questa è stata la nostra grande vittoria in tutti questi sette anni e oltre.
Non posso dimenticare da dove siamo partiti. Era passata poco più di una settimana dalla morte di mio fratello. L’avevamo visto in quelle condizioni terribili sul tavolo dell’obitorio e in quel momento potevamo solo immaginare che la strada che ci si apriva di fronte sarebbe stata difficilissima. Raggiungiamo l’avvocato a Ferrara. Lui non ci conosceva, avevamo solo parlato a telefono. Voleva incontrarci prima di decidere se accettare o meno il caso. Voleva vedere chi eravamo. Stefano era ancora da seppellire. Partimmo con i mei genitori e parlammo con l’avvocato. Ci interruppe quasi subito e disse “La strada che vi aspetta è difficile. Devo dirvi che quasi sicuramente questo caso sarà archiviato subito”. Da lì è iniziato tutto. Non c’è stata nessuna archiviazione. C’è stato un percorso difficilissimo nel quale ho visto Fabio battersi da solo contro tutto e tutti. Quando parlo di eroi e mi chiedo se ci sia ancora bisogno di loro, è perché so che senza eroi le cose non vanno avanti da sole. Questa è l’ingiustizia ulteriore che fanno lo Stato e la Giustizia alle nostre famiglie.
Adesso siamo in una fase nuova. Sono convinta che andremo avanti in maniera completamente diversa. Oggi non abbiamo più una procura ostile, oggi abbiamo delle prove schiaccianti nei confronti di persone che sono state terribili nel comportamento di quei giorni e di quegli attimi su mio fratello. Sono state terribili dopo. Sono terribili oggi, nel momento in cui, anziché vergognarsi di quello che hanno fatto, attaccano la mia famiglia. Attaccano ancora una volta Stefano. Attaccano tutti coloro che vogliono ancora essere al nostro fianco. Ma queste persone verranno processate e verranno condannate, e la Giustizia dimostrerà di essere davvero uguale per tutti.
A cura di Beatrice Petrella.