Come vivere in uno stato di emergenza indebolisce il senso di comunità

Come vivere in uno stato di emergenza indebolisce il senso di comunità

Coronavirus significa emergenza, significa provvedimenti drastici: chiusura di scuole, cinema, università e dal 7 marzo addirittura divieto di uscire da regioni e provincie per i cittadini. Tutti noi italiani, chi più e chi meno, siamo al corrente della difficile situazione che stiamo vivendo, non molto per la malattia in sé, quanto per il  potenziale rischio di fallimento sistematico della sanità pubblica a cui potremmo andare incontro non arginando il problema con tutti i mezzi a nostra disposizione.

Numerosi sono gli articoli e le notizie dell’ultimo momento che affrontano problemi quali come difendersi dal contagio, quali sono i comportamenti da evitare o quali invece sono le norme da rispettare, ma fino a questo momento in pochi hanno affrontato gli effetti collaterali della situazione drammatica che stiamo vivendo. Gli effetti collaterali di cui parlo sono quelli che si riversano sulla società, le conseguenze causate dall’estraniamento sociale necessario in questo momento per ridurre i contagi e potenzialmente salvare la vita a persone sottoposte a rischi particolarmente gravi. Cosa succede quando per tutto il territorio nazionale viene fatto divieto di assembramento e limitati i contatti umani al più possibile? È indubbiamente una situazione atipica ed i provvedimenti NECESSARI che sono stati presi dal governo costringono uno stato intero a cambiare le proprie abitudini e sacrificare i propri interesse per il bene comune.

Tutto ciò, ovviamente, ha delle ripercussioni osservabili ad occhio nudo e queste intaccano il nostro senso di comunità, talvolta addirittura di civiltà. Da emergenza che va affrontata assieme, questa situazione si è tramutata in una lotta per la sopravvivenza: tutti contro tutti. Difficilmente verranno dimenticate le ondate di odio riversate inizialmente solo a persone asiatiche, i pestaggi e la violenza gratuita “motivata” dal panico e dalla paura di un nemico immaginario che non siamo abituati ad affrontare, quel terrore che spinge le persone chiudersi nelle loro case ed ad ignorare sentimenti di empatia ma anche il più banale raziocinio. Abbiamo visto supermercati svuotati, ristoranti orientali costretti a chiudere per i pochi incassi, persone residenti nella cosiddetta “zona rossa” entrarvi ed uscirvi (e, senza volerlo, infettare gli individui con cui sono stati a contatto) dopo le ripetute raccomandazioni che li invitavano fortemente a non farlo. Ognuno ha agito nei propri interessi, pochi hanno pensato al bene comune. Il caos ha spinto le persone a credere a qualsiasi notizia fasulla ed a fidarsi di messaggi audio che da mesi girano su Whatsapp. Il problema è che, stando a quello che riportavano questi ultimi (ed anche altre numerose fonti inattendibili) il rischio mortale sembrava proprio essere imminente: ciò ha causato la famosa psicosi tanto discussa e tutti questi comportamenti apparentemente assurdi ma senza dubbio impulsivi.

Ciò che è stato inevitabile, invece, è l’ormai vigente divieto di assembramento e la chiusura di tutti i luoghi, pubblici e non, dove le persone sarebbero state troppo vicine tra loro. Le soluzioni a questo imprevisto sono arrivate immediatamente: smart working e lezioni a distanza, che sono indubbiamente l’alternativa più efficiente ed efficace, ma che hanno comunque contribuito al senso di estraniamento causato dall’isolamento nelle nostre abitazioni.

In un momento del genere è facile sentirsi soli. L’uomo è un animale sociale e,  in quanto tale, ha inevitabilmente bisogno di socializzare con altre persone per essere felice, ma non per questo bisogna perdersi d’animo. L’unico antidoto a questa sensazione di impotenza e solitudine è semplicemente desistere, attenersi alle normative ed indicazioni emanate dalle autorità competenti e fidarsi di loro: senza polemiche né tantomeno iniziative personali. Solo in questo modo questa storia riuscirà ad avere un lieto fine. 

Articolo a cura di Sofia Palla

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