Crisi al chiaro di mezzaluna

Crisi al chiaro di mezzaluna

Dopo putsch, golpe e coup d’etat, potremmo trovarci a dover imparare una nuova formula per dire “colpo di Stato”: askerî darbe, in lingua turca. Dopo tre episodi analoghi nella storia di questo paese (l’ultima volta nel 1980), a nemmeno 24 ore dalla strage che ha stravolto Nizza e la Francia intera, sono Ankara e Istanbul gli epicentri della nuova scossa che fa vacillare il già delicato equilibrio socio-politico interno.

Nella notte tra il 15 e 16 luglio la Turchia ha sfiorato la guerra civile con l’esercito (senza la partecipazione della Marina, che ne ha preso le distanze) da un parte, insorto contro il governo, e la popolazione. Una notte di caos, ma soprattutto di contraddizioni, quali il tentativo di raggiungere la democrazia attraverso un colpo di Stato (iniziato da un autoproclamatosi “Consiglio della Pace”), e l’appello del presidente Erdogan dallo schermo di uno smartphone, uno strumento della libera informazione da lui stesso tanto osteggiata e più volte censurata.

“Le Forze armate turche hanno preso il completo controllo dell’amministrazione del Paese per ristabilire l’ordine costituzionale, i diritti umani e le libertà, lo stato di diritto e la sicurezza generale che erano stati danneggiati. Tutti gli accordi internazionali rimangono validi. Speriamo che tutte le nostre buone relazioni con tutti i Paesi continuino.” Così riporta il comunicato annunciato dalla tv di Stato turca presa in assedio dalle forze militari, che parallelamente bloccano l’accesso ai due ponti sul Bosforo, controllano i principali scali aeroportuali e circondano la sede dell’AKP. Manca poco meno di un’ora dalla mezzanotte quando viene instaurata la legge marziale.

Ma Erdogan, prima della sua fuga nei cieli e di essersi visto rifiutare il permesso di atterrare a Berlino e a Londra, invita i cittadini con un appello tramite Facetime trasmesso dalla Cnn Turk a scendere in strada e a fare fronte comune per difendere l’ordine costituito: “sono ancora il vostro presidente“, dice, “resistete al golpe“. L’appello è stato diffuso anche dagli imam nelle moschee. Obama e la Merkel dichiarano il loro sostegno al “governo democraticamente eletto”.

A questo punto, numerosi militari e civili fedeli al presidente Erdogan si scontrano con i soldati golpisti. I violenti scontri perdurati tutta la notte, in cui sono stati coinvolti anche F-16, carrarmati e bombardamenti, hanno infine sancito il fallimento definitivo dell’insurrezione: la crescente pressione e disapprovazione da parte dei moti lealisti, dei vertici della NATO e dei principali partiti politici turchi hanno costretto i ribelli a lasciare i propri presidi negli enti televisivi, negli aeroporti e nei ponti bloccati. Erdogan, tornato a Istanbul e acclamato dalla folla, ha comunicato che per i golpisti il prezzo da pagare sarebbe stato altissimo: il premier turco  Binali Yildirum ha persino discusso di riforme costituzionali per il ripristino della pena capitale.

Sventato dunque il putsch, ancora tutto da definire non è soltanto il bilancio delle vittime, dei feriti e degli arrestati, ma anche la direzione in cui si spingerà ora la Turchia, la cui posizione nel panorama europeo diventa sempre più problematica e i cui rapporti con gli USA ora si inaspriscono a seguito del presunto coinvolgimento dell’imam Fetullah Gulen, ex alleato di Erdogan, accusato da questi di essere la mente dietro l’avvenimento, che però smentisce e condanna il golpe stesso.

di Furio Duratorre

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