La libertà di espressione è un diritto inalienabile nelle costituzioni democratiche, ma il governo non offre tutele.
Lo scorso 3 febbraio lungo una polverosa strada della capitale egiziana, è stato ritrovato il corpo senza vita di Giulio Regeni. Classe 1988, d’origine friulane, dallo scorso anno Giulio era impegnato in un programma di dottorato volto allo studio dei diritti dei lavoratori e dei sindacati egiziani e aveva composto una serie di articoli in cui non celava la sua opposizione nei confronti del governo di Al-Sisi. In estrema sintesi, si potrebbe affermare che Giulio sia stato ucciso dallo Stato egiziano che si erge su un sistema poco tollerante nei confronti di chi, senza alcuna pretesa sovversiva o facinorosa, segue una linea ideologica diametralmente opposta a quella imposta dai piani alti. Al di là dell’indiscutibile fallimento della primavera araba, il cruento e criminoso evento dimostra come in una nazione democratica su carta, la libertà accademica è messa sotto attacco ed è lasciata vigliaccamente morire agli angoli delle strade, sotto al sole cocente. Il dato più allarmante, tuttavia, è che anche nel cosiddetto mondo civilizzato, nella zona più bianca, più libera e più democratica dell’Occidente, la libertà accademica sembra essere sempre più indebolita da orde di dogmatici neoliberali, devoti servitori del parossismo capitalistico; la cosa è forse un fatto assai più grave rispetto a quanto accade in una nazione che, in fondo, con la democrazia ha sempre fatto a pugni.
I partenariati università-grandi aziende americane hanno radici storiche lontane, a partire dagli anni ’60, quando la società giovanile americana cominciò ad assumere la forma di portavoce del dissenso popolare contro un governo impegnato nelle fallimentari imprese militari estere, contro l’eccessiva aziendalizzazione della realtà e contro tutte le svariate forme di razzismo, e dunque a diventare sempre più invisa ai poteri forti, alle lobby guerrafondaie e alle industrie di armi. Un tempo autentici luoghi del sapere, oggi le università americane sono diventate centri propulsori della cultura neoliberale. I fondi pubblici sono stati tagliati e sostituiti da quelli privati: e se “money is power”, “power is culture”. La privatizzazione degli atenei è stata affiancata dall’impoverimento della classe docente. La maggior parte dei professori universitari americani, infatti, oggi è assunta con contratti a breve termine, ciò significa che, vivendo nel precariato, sono spesso poco motivati all’insegnamento. Ma i bassi e gli incerti salari dei docenti, sono stati ben compensati dalla classe manageriale che non solo ha assunto il quasi totale controllo del funzionamento delle università, ma vanta anche di stipendi annui a tre cifre, vantaggi e possibilità di avanzamento di carriera, a scapito degli studenti ultra tassati e indebitati. Il processo di aziendalizzazione delle università americane ha instillato e sta tuttora infondendo una cultura aziendale, secondo la quale le materie umanistiche, dalla filosofia alla storia, dalla letteratura alla sociologia e all’arte, sono sempre più marginalizzate e considerato poco “useful” e per niente “profitable”. Scalfire i valori di un’istruzione indipendente corrisponde a svuotare e privare la società di pensatori creativi, medici brillanti, ingegneri pioneristici; abbattere gli ampi spettri della conoscenza e finalizzare la preparazione accademica al lavoro nei mercati finanziari o nelle avide aziende farmaceutiche, significa annullare l’individuo e attentare alla sua libertà di espressione. Un filo rosso, dunque, collega il mondo dichiaratamente democratico a quello che lo è solo ufficialmente. Nel primo di certo mancano scosse elettriche e torture disumane, ma siamo sicuri di essere disposti a sacrificare la libertà accademica, e dunque, la libertà sociale e di pensiero, in cambio di una luccicante pace di plastica?
A cura di Emilia Sgariglia