La musica è un gioco di squadra, la costruzione di un puzzle formato da tasselli disegnati da compositori, produttori, musicisti, cantanti, parolieri che creano un fragile equilibrio di idee e di principi, di sogni e di visioni. La musica è connessione. Rifiuta l’idea dell’artista solitario, isolato, discretamente misantropo che crea con una penna, con un pennello, uno scalpello un mondo parallelo in cui trasferirsi per voltare le spalle al resto dell’umanità.
È per questo che, tuttavia, è la forma d’arte maggiormente soggetta all’industrializzazione e alla mercificazione.
La musica diventa semplicemente un’altra fonte di ricchezza, prodotta in serie a livello industriale da musicisti che lavorano per pochi centesimi per le grandi case discografiche.
È così che a Manchester, nel 1976, nasce la musica Indipendente. I Buzzcocks si erano formati solo di recente quando nel luglio del ’76 aprirono il concerto dei Sex Pistols. Questi ultimi erano ancora profondamente legati a una delle etichette discografiche più importanti e influenti dell’epoca, i loro progetti decisi dall’alto, la loro musica ispezionata da vari produttori in giacca e cravatta prima che potesse essere pubblicata. Soffocati dalla prospettiva di un successo ingabbiante e indignati da quello che sembrava essere il futuro della musica, i Buzzcocks decisero di produrre autonomamente i loro lavori, affrontando tematiche ancora tabù per l’epoca, in parte anche nel movimento punk, come il sesso (Orgasm Addict) e le droghe (I Need) e ricercando sonorità poco raffinate guidate da chitarre distorte e da rullanti stridenti.
Suoni poco attraenti per i consumatori di massa, testi scomodi per un insofferente pubblico borghese; alla fine del 1976 uscì il primo EP della band, Spiral Scratch, composto da quattro brani con la loro etichetta New Hormones, diventando la prima band punk a realizzare e pubblicare i propri lavori con una casa discografica indipendente.
L’EP riscosse un successo inaspettato nel panorama della musica underground, e ispirò altre band come i Joy Division, i Beat, i Throbbing Gristle e gli Orange Juice a produrre autonomamente i loro brani e portò alla fondazione delle più importanti etichette discografiche indipendenti dell’epoca (la Factory Records, la Zoo Records, la Postcard e la 2 Tone Label).
Fu un vero e proprio movimento rivoluzionario che andò oltre il mondo della musica: si diffuse la DIY (abbreviazione di Do It Yourself, equivalente dell’italiano fai da te), un’etica nata all’interno della cultura punk, che propugnava il rifiuto per le major della distribuzione musicale, ritenute capitaliste.
Con l’avvento dei social media, dei siti streaming e di internet, la musica Indie si è evoluta e il termine stesso ha smesso di indicare un genere musicale, uno stile di vita, una subcultura del Punk, e ha iniziato a riferirsi al semplice processo di produzione dei brani.
Incoraggiati da un numero discreto di like, accecati da una società che si nutre delle illusioni di individui gonfiati dal proprio autocompiacimento, intorpiditi dalla convinzione di poter vivere dei propri sogni, le nuove generazioni hanno infiniti mezzi di produzione artistica alla portata di tutti e che facilitano immensamente il processo creativo, oltre a innumerevoli mezzi per condividere la propria “arte”. Così la musica indipendente si è divisa in vari sottogeneri e ha invaso piattaforme come YouTube e SoundCloud che, per quanto diano l’illusione di dare a chiunque una possibilità di successo, fanno sì che i prodotti di qualità di musicisti che meritano effettivamente visibilità vengono sommersi e affogati da una marea di altri contenuti che spesso abbassano il livello di tali siti streaming.
Queste piattaforme di condivisione sembrano essere, tuttavia, il futuro dell’industria musicale: un luogo dove anche artisti affermati si emancipano dalle reti immobilizzanti delle etichette discografiche. Basti pensare ai Radiohead, che nel 2007 hanno pubblicato In Rainbows, il primo album disponibile esclusivamente in download, o a Russ, un rapper completamente indipendente che si occupa di tutti gli aspetti creativi della sua produzione e che ha raggiunto il successo grazie alle sue pubblicazioni su SoundCloud; Chance the Rapper, che è stato il primo rapper ad aver vinto tre Grammy per un album disponibile solo online; o anche a cantanti mainstream come Miley Cyrus che si è affrancata dalla sua casa discografica e ha prodotto i suoi ultimi due album in una sala di registrazione arrangiata nella sua casa di Malibu.
La strada dell’emancipazione della musica dall’industria capitalista è lunga, e vivere della propria Arte risulta sempre più difficile, ma sembra che gli artisti stiano riprendendo lentamente le redini delle proprie carriere e delle proprie scelte creative, che stiano ripulendo la musica da tutto il superfluo, l’artificiale, e le stiano restituendo la sua antica autenticità che aveva annoverato Euterpe, la musa della musica, fra le nove Arti, figlie di Mnemosyne.
A cura di Chiara Lai