Egitto: cosa accade veramente

Egitto: cosa accade veramente

Alla luce dell’uccisione di Giulio Regeni, si è riaccesa l’attenzione sull’Egitto, la cui situazione riguardo il rispetto e la tutela dei diritti umani è stata a lungo minimizzata o, ancor peggio, ignorata. Vista la rilevanza attuale, sembra giusto inquadrare e fare una panoramica generale sulla situazione dei diritti umani in Egitto.

Con la Primavera Araba – espressione che indica i movimenti rivoluzionari che hanno attraversato i paesi del Medio Oriente e Nord Africa nel 2011 e che hanno portato in Egitto alla caduta di Mubarak dopo trent’anni di dominio – si auspicava una democratizzazione del paese, richiesta a gran voce dal popolo. Purtroppo così non è stato, i sogni di libertà e democrazia sono rimasti tali.A cinque anni dall’inizio della Primavera araba, Amnesty International denuncia come il paese sia tornato completamente ad essere uno stato di polizia. La repressione è estremamente dura e quotidiana. Secondo dati diffusi dagli attivisti egiziani per i diritti umani, sono più di 41.000 le persone arrestate, accusate di reati penali e processate in modo irregolare.

Sono vari gli strumenti a cui lo stato ricorre per attuare le sue politiche repressive nei confronti di chi si oppone; prima tra tutti la legge n.107/2013, la meglio nota Legge sulle proteste, la quale consente alle autorità di arrestare e processare dimostranti pacifici, solo per aver provato a scendere in strada senza previa autorizzazione. Le forze di polizia hanno totale discrezionalità nel compiere tali arresti ed i manifestanti vengono trattati alla stregua di criminali. Uno dei casi più eclatanti di eccessivo uso di forza nel corso di manifestazioni è avvenuto il 24 Gennaio 2015 a Il Cairo, dove le forze di sicurezza hanno sparato colpi sulla folla, uccidendo una dimostrante, Shaimaa Al-Sabbagh. Almeno 27 persone sono morte nel corso di manifestazioni legate alle proteste che vi sono state in tutto il paese tra il 23 ed il 26 gennaio 2015, sempre per mano degli agenti di sicurezza. I motivi e le giustificazioni di tali politiche restrittive vengono individuate dalle autorità egiziane nella necessità di mantenere stabilità e sicurezza. Il problema è che nella stragrande maggioranza dei casi i manifestanti oggetto di tali misure non sono violenti, o comunque, rispetto alle loro azioni, le reazioni delle forze di sicurezza sono oltremodo sproporzionate.Molte delle persone arrestate sono portate in tribunale a seguito di accuse false o sulla base di ragioni politiche e condannate per mezzo di prove insufficienti o inesistenti, in alcuni casi, solo grazie a testimonianze da parte delle forze di sicurezza o a indagini della Sicurezza nazionale. Oltre alle evidenti violazioni delle norme sul giusto processo, molti altri ancora sono detenuti senza alcuna accusa formale e senza processo.

La frequenza con la quale si verificano queste situazioni è allarmante, basti pensare che alla fine del 2015, erano almeno 700 le persone trattenute in detenzione preventiva da più di due anni, senza essere state condannate da un tribunale, in violazione del limite massimo di due anni previsto per questo tipo di detenzione dalla legislazione egiziana.Un caso eclatante è quello del fotoreporter Mahmoud Abu Zeid, meglio conosciuto come Shawkan (http://www.amnesty.it/egitto-shawkan-tortura), arrestato il 14 agosto 2013 mentre svolgeva un servizio sul violento intervento delle forze di sicurezza per disperdere una protesta. È stato detenuto senza accusa per quasi due anni, prima che il pubblico ministero riferisse il suo caso al tribunale. Ad oggi, sono più di 1000 i giorni che ha trascorso in carcere, senza che sia iniziato alcun processo, che continua ad essere rinviato a causa dell’eccessivo numero di imputati che non possono essere accolti nell’aula di tribunale. Non da meno è la storia dello studente Mahmoud Mohamed Ahmed Hussein, il quale è stato tenuto agli arresti senza accusa né processo per oltre 700 giorni, dopo essere stato arrestato nel gennaio 2014 per aver indossato una maglietta che riportava la scritta “Nazione senza tortura”.

Ma ad aggravare quella che è già una landa deserta per i diritti umani, sono le condizioni della fase di arresto e, poi, di custodia dei detenuti. I prigionieri sono frequentemente maltrattati dalle forze di sicurezza durante l’arresto ed il trasferimento dal commissariato al carcere. Nelle strutture detentive sono sottoposti, tra le tante, a percosse, scosse elettriche oppure sono costretti a rimanere a lungo in posizioni di stress. Le celle sono sovraffollate e prive di igiene; in alcuni casi, le autorità hanno impedito a familiari e avvocati di portare cibo, farmaci e altri beni a coloro che sono reclusi. Molte sono le segnalazioni di decessi avvenuti in custodia, causati da torture ed altri maltrattamenti, oppure da mancanza di accesso a cure mediche adeguate. I dati di Human Rights Watch riportano un numero di 47 prigionieri morti durante la detenzione nei primi sei mesi del 2015; 209 quelli deceduti per “negligenze mediche” dalla data del golpe di al-Sisi.

Ad aggravare la situazione, nel febbraio 2016 è stata ordinata la chiusura di un importante centro per la riabilitazione dalla tortura, il Centro El Nadeem per la riabilitazione delle vittime della violenza, nella capitale Il Cairo, che costituisce un grave passo indietro nella tutela dei diritti umani. Per Amnesty International, questa decisione sembra rappresentare un’ulteriore fase della repressione contro le attiviste e gli attivisti per i diritti umani in Egitto. Negli ultimi giorni, la situazione è peggiorata ulteriormente. Almeno 238 persone, tra cui attivisti e giornalisti locali e stranieri, sono state arrestate in varie città dell’Egitto il 25 aprile, giorno in cui si celebra il ritiro nel 1982 di Israele dalla penisola del Sinai. Il governo egiziano sembra ormai non aver più paura nel far vedere al mondo intero la quotidiana violazione dei diritti umani da parte dei suoi apparati. Alla luce di questo drammatico scenario, la comunità internazionale è rimasta in disparte, mera osservatrice di eventi che non le appartengono.

 

A cura di Chiara Turtoro

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