Fast fashion: istruzioni per l’uso

Fast fashion: istruzioni per l’uso

Tempo di saldi e tempo di shopping per tutti quanti.
Passato da poco il rush per le compere natalizie, le strade di Roma tornano ad affollarsi di persone alla ricerca dell’affare perfetto.
Soprattutto per i ragazzi mete principali sono catene come Zara, Bershka, Mango o Pull&Bear. Qui possono trovare quello che cercano: quel paio di jeans a zampa che piace tanto all’amica e quella felpa con le scritte, perfetta da regalare al fidanzato.
Il tutto a un prezzo super contenuto, adatto alle tasche universitarie.
Ma fermiamoci un attimo.
Stoppiamo per un secondo la frenetica corsa agli sconti e sediamoci a riflettere.
Ci siamo mai chiesti come mai quei jeans o quella felpa costano così poco?
La risposta è semplice: sono capi Fast Fashion.
I brand fast fashion hanno come obiettivo principale quello di uscire con nuove collezioni circa ogni due settimane. Oltre a quasi azzerare il processo creativo dietro il capo, i vestiti costano così poco perché vengono prodotti ottimizzando tutti i passaggi.
Queste grandi catene tendono a spostare la produzione in zone del mondo dove il costo del lavoro è molto basso (paesi in via di sviluppo come il Bangladesh o l’India) e dove i diritti dei lavoratori sono praticamente inesistenti. Donne e bambini vengono sfruttati, spesso lavorando in ambienti malsani ed edifici fatiscenti, non idonei al tipo di produzione che si fa al loro interno. Lo dimostra, quale caso emblematico, il crollo di Rana Plaza avvenuto nel 2013.
Il 24 aprile 2013, in Bangladesh, è crollato un edificio di otto piani che ospitava diversi laboratori tessili a Savar, una città a venti chilometri dalla capitale Dhaka. Nel crollo sono morte 1.135 persone, e circa 2.500 feriti sono stati estratti vivi dalle macerie. Nel palazzo lavoravano almeno cinquemila persone, soprattutto donne, che producevano capi d’abbigliamento anche per noti marchi occidentali. I vertici si sono semplicemente scusati, e non hanno fatto nulla di concreto per migliorare la situazione dei loro lavoratori.
Non finisce qui.
L’industria della moda è la seconda più inquinante al mondo, dopo quella del petrolio, e responsabile del 10% dell’impronta di carbonio mondiale.
I vestiti fast fashion si sfibrano molto più facilmente, sono progettati per “auto-distruggersi” così che le persone abbiano sempre bisogno di buttarli e comprarne di nuovi, in un ciclo infinito di inquinamento e consumismo.
Per tutti questi motivi, quest’anno ho deciso che non avrei mai più comprato fast fashion e sarei andata a fare i miei acquisti da qualche altra parte.
Un’obiezione che spesso viene fatta è che comprare sostenibile sia qualcosa di troppo dispendioso a livello economico. Ci si immagina a girare per boutique vintage cercando il capo firmato d’epoca ma in realtà non è affatto così. Ci sono moltissimi ragazzi che si interessano sempre di più al consumo etico e sostenibile anche a livello di abbigliamento, molti scambiando o vendendo usato (su siti come depop per esempio si può comprare direttamente dagli altri utenti che caricano sul loro profilo foto con i vestiti usati che intendono vendere). Anche su etsy.com si trovano oggetti d’artigianato molto interessanti. Ancora, “colossi” come asos o zalando hanno ultimamente inaugurato delle sezioni eco e sostenibili dei loro siti. E se non si ha voglia di fare troppe ricerche su internet, basta andare a farsi un giro nei negozi etici o vintage della propria città (a Roma ce ne sono tantissimi).
Iniziando a comprare sostenibile combatteremo la tendenza del fast fashion a portarci a consumare e comprare sempre di più, troveremo il nostro stile con capi meno standardizzati, l’ambiente …e anche le nostre tasche, ne gioveranno.
A cura di Beatrice Offidani

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