GABRIELE D’ANNUNZIO E L’EBBREZZA DI UN SOGNO:

GABRIELE D’ANNUNZIO E L’EBBREZZA DI UN SOGNO:

Lungo le coste del Mar Adriatico, sul golfo del Quarnaro, si affaccia Fiume, città antica e strategicamente fondamentale per la collocazione geografica e per la presenza di un imponente cantiere navale. Le trattative fra le grandi potenze volte a riprogettare e ridefinire l’assetto geopolitico europeo sconquassato dal primo conflitto mondiale si sono arenate sull’assegnazione di questa città, rivendicata dalla Repubblica Italiana e dal suo governo. Per rispettare la volontà del Presidente degli Stati Uniti d’America Woodrow Wilson la comunità internazionale pone Fiume sotto il controllo di un comando interalleato, che governa la città attraverso contingenti francesi, inglesi, americani e croati. La questione di Fiume infiamma il dibattito pubblico italiano, e presto si diffonde il termine ‘vittoria mutilata’; secondo molti italiani il trattamento riservato al proprio paese dalla comunità internazionale è ingiusto e scorretto, e il contributo dell’Italia alla vittoria degli alleati non è stato sufficientemente considerato.

L’Europa nel 1919

Una mattina, l’11 settembre 1919, 187 granatieri italiani allontanati da Fiume a causa di alcuni scontri con il contingente francese, cercano di rientrare in città. Dalla loro parte si schiera una legione di volontari che fa parte della popolazione civile di Fiume, perlopiù italiana. A guidare il contingente di ribelli, un poeta orbo e mutilato: su una cabriolet Fiat 511 Sport, rossa fiammante, Gabriele d’Annunzio precede la colonna in marcia verso Fiume. Contro i 187 c’è la comunità internazionale, il presidente degli Stati Uniti d’America, e tutte le grandi potenze, compresa l’Italia, uscite vincitrici dal primo conflitto mondiale. A Castelnuovo quattro autoblindo circondate da bersaglieri bloccano la colonna; il poeta scambia alcune parole con gli ufficiali italiani, e dopo pochi minuti le autoblindo si schierano a protezione del gruppo capeggiato dal Vate. Il generale Pittalunga, comandante delle forze alleate di Fiume, ordina al colonnello Raffaelle Repetto di fermare d’Annunzio; non appena Repetto incontra il poeta, gli corre incontro e l’abbraccia. La colonna diventa sempre più grande. Giunti oramai alle porte della città, un ultimo ostacolo si frappone fra la conquista e il poeta: lo Stato italiano, incarnato e rappresentato dal generale Pittalunga. D’Annunzio avanza fra le truppe e scopre il petto, pieno di medaglie, emulando Napoleone; è tenente-colonnello, nessuno come lui, da civile, è mai salito così in alto nella gerarchia militare per meriti di guerra. Lui, il Vate, che a 50 anni ha indossato la divisa dell’esercito italiano e ha realizzato imprese straordinarie come Il Volo su Vienna o La Beffa di Buccari, durante la Grande Guerra. Il generale Pittalunga, lo Stato, non può schierarsi contro chi lo ha servito con tanto ardore e coraggio. Fiume appare a d’Annunzio come una sposa vestita di bianco, che si consegna al poeta per celebrare la prima notte di nozze. La popolazione lo accoglie festosamente, piovono foglie d’alloro e il Vate assume la carica di governatore della città, senza versare una sola goccia di sangue, senza sparare un singolo colpo, contro il volere di tutta la comunità internazionale.

100 anni fa, l’8 settembre 1920, Gabriele d’Annunzio proclamava l’indipendenza di Fiume attraverso l’istituzione di un’entità statale provvisoria: la Reggenza Italiana del Carnaro. La costituzione della città, La Carta del Carnaro, è un documento di fondamentale importanza. In questi giorni si celebra il Festival della Rivoluzione 2020, gestito dal professor Ferri, autore di ‘Disobbedisco’. Nel libro lo scrittore sostiene una tesi estremamente interessante: la storiografia ufficiale definisce superficialmente d’Annunzio un precursore del fascismo, non considera il libertarismo e il progressismo edonista che hanno animato il poeta e lo hanno portato a consacrare, nella Carta del Carnaro, diritti fondamentali e valori sorprendentemente moderni: si parla di democrazia diretta, salario minimo, eguaglianza formale, “risarcimento in caso di errore giudiziario o abuso di potere da parte delle autorità”, legalizzazione del divorzio, tutto ciò in netta contrapposizione rispetto alla tradizione paternalistica e tipicamente autoritaria che ha invece caratterizzato il ventennio successivo, sul quale, e questo è innegabile, il Vate ha esercitato molta influenza. In effetti persino Lenin definì D’Annunzio ‘un vero rivoluzionario’ (Fiume fu il primo paese a riconoscere la Russia Comunista) e il fascismo, pur celebrandolo come un patriota e un eroe di guerra, lo ha sempre guardato con sospetto. In effetti non c’è da stupirsi; per d’Annunzio l’ideologia o la collocazione politica non hanno mai avuto alcun valore. Quando fu deputato abbandonò i banchi dell’estrema destra recandosi verso sinistra e pronunciando una frase destinata a riassumere tutta la sua avventura parlamentare: “Vado verso la vita.” La sua visione tendenzialmente conservatrice, che possiamo tranquillamente individuare e contestualizzare leggendo ‘Le Vergini delle Rocce’, in cui si parla di ‘grigio diluvio democratico’, si coniuga a fatica con la componente rivoluzionaria, modernista e progressista che condisce la Carta del Carnaro. Antonio Padellaro, in un articolo sul Fatto Quotidiano, immagina un parallelismo anacronistico e affascinante: “Se (d’Annunzio, ndr) fosse vissuto ai nostri giorni sarebbe un divo della Rete, uno straordinario supereroe social, certamente molto amato dai ragazzi, specialmente i più avventurosi.” E in effetti la spasmodica esigenza di apparire e le manie di protagonismo del Vate lo avrebbero spinto ad individuare nei social un terreno di coltura perfetto, dove far crescere rigogliosamente il proprio mito.

Gabriele d’Annunzio ha enormi responsabilità: il suo contributo all’ascesa del fascismo è innegabile. Ma sarebbe alquanto stupido e superficiale fermarsi qui. Bisogna considerare la colossale produzione poetica e artistica del Vate, che lo consacra e lo rende immortale. Ma soprattutto bisogna tener conto del fascino, che nonostante tutto, la figura di Gabriele d’Annunzio esercita su chi legge la sua opera più bella: la vita che ha condotto, le imprese straordinarie che a 50 anni, durante il primo conflitto mondiale, ha realizzato.

Infine, l’ebbrezza di un sogno: la rivoluzione dannunziana in Italia, il modello Fiume esportato e diffuso in tutta la penisola. L’8 settembre 1920, 100 anni fa, non sembrava soltanto la folle idea di un megalomane ubriaco di ardente esaltazione. E D’Annunzio non era un fascista, credeva in se stesso. Credeva soltanto nel sogno che lo ha divorato e al tempo stesso consegnato alla Storia.

Articolo a cura di Michelangelo Mecchia

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