Il titolo dell’articolo può confondere: non si sta parlando della pellicola cinematografica del 1955. Si sta parlando, infatti, della realtà italiana, in cui molti giovani non riescono a ritrovarsi, a capirsi e si trovano disorientati e spauriti di fronte alla vita.
Il grande punto interrogativo che lascia il liceo, dopo l’esame di maturità, è proprio questo: che cosa si vuole diventare da grandi? Che cosa offre il mercato del lavoro? Che cosa offre invece l’università?
L’investimento dello Stato
Qui vi si presentano due tipologie di ragazzi: coloro che non sanno bene cosa fare della propria vita e coloro che, invece, lo sanno bene. In ogni caso, per la maggioranza dei casi, alla fine prendono l’università, generando un dispendio economico molto ingente da parte dello Stato: basti pensare che, secondo il portale studentigiurisprudenza.it, lo Stato, per mantenere uno studente universitario, spende, in un solo anno, 30.000 euro. Le spese gestite da esso sono coperte solo in parte dal pagamento delle tasse universitarie, le quali variano dai 2.000 ai 4.000 euro a seconda del proprio reddito familiare, sempre riferite dal portale sopracitato.
Non sempre questo investimento economico da parte dello Stato è azzeccato: basti pensare a quel 7% di ragazzi che, una volta iscritti all’università, lascia un anno dopo o a quell’11% che dopo un anno cambia il corso, come scrive il Corriere della Sera in un suo articolo datato del 25 febbraio 2015 o, peggio ancora, a quel 40% di ragazzi che si trovano fuori corso, fenomeno che continua a crescere di anno in anno, stando alle dichiarazioni di lavoce.info. Tra questi se ne trovano molti che fanno parte della categoria di coloro che non sanno cosa essere da grandi e che si ritrovano a fare una scelta dell’ultimo minuto, magari condizionata da consigli degli adulti o, semplicemente, per trovarsi un qualcosa da fare. Ma ancora più triste, benché nota oramai a tutti, è la vicenda che coinvolge tutti quei ragazzi che vogliono accedere alle facoltà con l’ammissione a numero programmato e che, appunto, a settembre vengono ritenuti non idonei e che alimentano quel circolo vizioso che porta al fenomeno del “fuoricorsismo”.
L’esigenza del test di ingresso
Vi sono diverse categorie di test di ingresso: quelli a numero chiuso e quelli a numero programmato. Il numero chiuso è deciso dallo stesso ateneo e il suo numero varia a seconda di questo. L’accesso a numero programmato colpisce poche facoltà del nostro sistema universitario: sono le facoltà di Medicina e Chirurgia, Architettura, Odontoiatria e Veterinaria, senza contare le eccezioni di Professioni Sanitarie e Scienze della Formazione Primaria, la cui prima è gestita dalle singole università e la graduatoria è a livello locale, e non nazionale come quelle ad accesso programmato, mentre la prova della seconda facoltà citata è amministrata dai singoli atenei, sebbene vige un certo limite per i posti, il quale è imposto dal Miur.
Questo dovrebbe porre un rimedio al sovrappopolamento nei vari ambiti lavorativi. In un articolo del portale quotidianosanita.it del 26 giugno 2015, la Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri (FNOMCEO) ha lanciato il seguente allarme: tra dieci anni vi saranno circa 25.000 medici disoccupati.
Questo dato, che prendiamo come esempio, fa riflettere e porta a un bivio: da un lato si evidenzia la predilezione dello Stato per il vecchio, mentre il nuovo deve attendere con ansia il suo tempo; da un altro la poca mobilità sociale all’interno del nostro Stato.
Il primo problema è causato dalle pensioni che tardano ad arrivare: nel 2016 le pensioni sono arrivate a 66 anni e 7 mesi per gli uomini. Prima della Riforma Amato del 1992, le pensioni per gli uomini erano fissati a 60 anni. Per le donne ancora peggio: infatti, se nel 1992 le donne di 55 anni potevano andare in pensione, attualmente solo le donne di circa 66 anni possono andare in pensione, a seconda se lavora nei privati o nell’ambito pubblico. Questo vorrà dire solo una cosa: che le pensioni continueranno a slittare, creando un buco generazionale e che quei pochi che avranno un lavoro non vedranno mai la pensione, dato che slitterà oltre la reale aspettativa di vita.
Il secondo problema è causato da una sorta di casta su alcuni lavori: notai, magistrati, medici, architetti, tanto per riportare alcuni esempi. E non c’è spazio, dunque, per chi si vuole costruire un futuro da solo, come il mito del “self-made man”, tipico in America, dove la mobilità sociale è così ampia che anche gli immigrati hanno la possibilità di esprimersi come vogliono.
Questo porta inevitabilmente a dover dirottare le misere risorse di uno Stato solo su alcune persone, a puntare solo su giovani che abbiano successo nello studio e, quindi, alla creazione di test di ingresso nelle università.
Il contenuto dei test
I test di ingresso, strutturati come adesso, non sono, però, alla portata di uno studente che è appena uscito dal liceo. Essi variano a seconda della facoltà che si vuole andare a prendere: vi sono domande comune per tutte (come i quesiti di cultura generale, di logica e di matematica), ma altre molto specifiche (come i quesiti di chimica nelle facoltà scientifiche). Eppure, tante delle domande non sono minimamente sfiorate durante gli anni del liceo. Com’è possibile, dunque, che in una singola estate, un ragazzo sia in grado di studiarsi argomenti molto più difficili rispetto a quelli fatti in cinque anni di liceo, che sia in grado di prepararsi per un test molto più complicato e decisivo dei compiti in classe a cui si è abituati? Un test che cambierà la vita degli studenti, perché dopo l’università bisognerà guardare al futuro e pensare a come ci si vuole realizzare.
Il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini aveva optato per un sistema alla francese: primo anno di prova a tutti e test alla fine del primo anno. Ovviamente i posti sono sempre molto pochi: sempre secondo il FNOMCEO bisogna ridurre il numero dei candidati alle 6.500 unità. Perciò nulla di fatto, anche il modello alla francese, a causa delle delusioni che esso poteva nuocere, si è dissolto nell’aria, anche se, effettivamente, solo dopo una preparazione universitaria, si è pronti ad affrontare determinati test, soprattutto quelli scientifici.
I dati
I dati parlano chiaro: fino al 2015, nel test di Medicina, coloro che risultavano idonei erano poco più della metà (circa il 52%, secondo le stime di AlphaTest), i restanti non sono riusciti a entrare in graduatoria. Ma anche molti risultati idonei non sono riusciti ad entrare in graduatoria, poiché i posti erano insufficienti per poter essere presi tutti. Il numero dei candidati, quell’anno è stato di 60.639, sempre secondo AlphaTest, ed i posti disponibili erano solo per 9.530, inclusa Odontoiatria. Troppo pochi. Se confrontati, però, ai posti di quest’anno sono leggermente di più. Infatti quest’anno i posti disponibili erano 9.224, 306 posti in meno rispetto all’anno precedente. Inoltre dal 2013 si è registrata una caduta verticale del numero dei candidati iscritti alla prova tramite il portale Universitaly: sono stati circa 63.000, come scrive un articolo del giornale “Repubblica” del 29 luglio 2016. Quest’anno sono entrati circa uno studente su sette. Gli esclusi sono costretti a scegliere delle facoltà di ripiego che possiedono il numero aperto, per ritentare il prossimo anno, facendo accrescere nuovamente il numero di candidati: dal 2015 che erano poco più di 60.000 vi erano quasi 3.000 unità in più.
Inoltre, quest’anno, la prova si è rivelata molto più semplice rispetto agli anni precedenti: sempre secondo un articolo di “Repubblica”, datato del 21 settembre 2016, quasi il 94% dei candidati è riuscita ad ottenere la soglia minima dei 20 punti. Discorsi analoghi lo si possono fare a tutte le altre facoltà a numero programmato e, indirettamente, agli atenei che usano il numero chiuso, poiché non riescono a sostenere i costi per tutti.
La colpa del sistema italiano
Questo sta a sottolineare quanto, nonostante la buona volontà dei ragazzi, lo Stato non sia in grado di soddisfare i bisogni di tutti questi giovani, pieni di speranza, quanto lo Stato italiano non risponda alle loro esigenze, dando a loro un’educazione adeguata a superare i test e non riducendoli a studiare da autodidatti da alcuni libri, o, peggio ancora, frequentando corsi di preparazione che hanno prezzi elevatissimi e che porta, a forza di cose, all’esclusione di gruppi di persone che non sono economicamente avvantaggiati.
Ma se l’università è pubblica, significa che è aperta a tutti. Allora perché tende ad escludere e non ad includere?
Complici, appunto, la crisi economica e il mercato di lavoro bloccato, ad oggi l’unica via è quello di emigrare. Il fenomeno dei “cervelli in fuga”, però, non deve essere visto in malo modo: solo in questo modo si può mettere a frutto tutta la qualità del capitale del giovane italiano. Se, infatti, lo Stato stesso non offre le possibilità di costruirsi un futuro, allora è meglio metterle a frutto da un’altra parte.
I test motivazionali
Se proprio non c’è possibilità alcuna di poter scampare a questa selezione, per le motivazioni esposte in precedenza, allora è chiaro che la struttura dei test non si devono basare sulle nozioni, che uno dovrebbe acquisire durante il corso di laurea, ma sulle motivazioni del ragazzo ad intraprendere quel dato percorso, ovvero un test motivazionale.
Il test motivazionale è sicuramente più efficace e, se accompagnato con un attento orientamento durante gli anni del liceo, può fare la differenza: se ci basassimo sulle motivazioni di un ragazzo a intraprendere un dato percorso, potremo davvero capire chi è in grado di potercela fare.
Questo lo si evince perché, nonostante la selezione, ancora molti, dopo poco tempo, smettono di frequentare l’università e lasciano al primo anno. Se uno è davvero motivato e crede in quello che fa, allora è molto più probabile che ce la farà. Non vi è certezza in questo, ma è sicuramente una valida alternativa. Perché di fondo, siamo fatti di emozioni e non di nozioni.
A cura di Maria Chiara Rocchetti