Durante la pandemia, gran parte della popolazione mondiale ha dovuto affrontare un periodo di isolamento sociale, dovuto ai lockdown e alle misure restrittive attuate dalle Autorità nazionali. Se per molti questa restrizione è stata una misura imposta, per altri l’allontanamento sociale è stato la conseguenza di una scelta personale. A seguito dei primi allentamenti delle misure restrittive, molti giovani hanno volontariamente deciso di proseguire il proprio isolamento, precedentemente imposto. Questa situazione ha messo in luce una problematica sociale simile, già nota in Giappone: quella degli hikikomori (hiku “spingere” e komoru”fuggire”), letteralmente “stare in disparte”.
Con l’inizio dell’emergenza sanitaria, e il conseguente lockdown, in Italia il numero di vittime di questo disagio è aumentato. Tuttavia, la disinformazione diffusa, sul tema, ha ostacolato l’organizzazione di un’adeguata campagna di sensibilizzazione della popolazione italiana a riguardo. Negli ultimi tempi però qualcosa sta cambiando.
Il fenomeno degli hikikomori venne definito per la prima volta negli anni Ottanta dalla psicologa giapponese Tamaki Sato per indicare i soggetti che, generalmente tra i 14 e i 30 anni, decidono di rifiutare volontariamente ogni tipo di contatto col mondo esterno, fino a recludersi nella propria camera. Il primo campanello di allarme è generalmente un progressivo allontanamento dal contesto scolastico, dove la pressione sociale e gli episodi di bullismo portano sempre più adolescenti ad isolarsi. Questa scelta può durare per mesi o anni, e spesso porta il soggetto ad abbandonare gli studi, dal momento che avverte un senso di rifiuto verso ogni tipo di ambiente sociale. Questo fenomeno è nato in Giappone e conta più di un milione di casi, ma negli ultimi tempi si è diffuso su scala transnazionale. È un problema che sembra essere presente in quasi tutti i paesi più economicamente sviluppati del pianeta. Di conseguenza, le cause sono da ricercare in ambienti fortemente competitivi, che spesso caratterizzano le società capitalistiche: forti pressioni sociali e paura di fallimento sono solo alcune delle condizioni che portano l’individuo ad isolarsi gradualmente dal mondo circostante.
In Italia, il numero di hikikomori è stimato attualmente intorno ai 100mila casi, seppur nessun dato ufficiale lo confermi. Nonostante l’alto numero di soggetti colpiti, questo fenomeno sembra essere ancora poco conosciuto. A livello nazionale, la disinformazione al riguardo ha disincentivato l’organizzazione di campagne di sensibilizzazione sul tema, abbandonando molti dei ragazzi che sono già in una situazione di grande difficoltà. Tuttavia, negli ultimi tempi l’attenzione verso questo disagio sociale giovanile è cresciuta notevolmente: il merito è in gran parte di Marco Crepaldi, il fondatore di Hikikomori Italia, specializzato in psicologia sociale e comunicazione digitale. Quest’associazione, inizialmente nata nel 2017 come un blog di sostegno, è diventata la prima ONLUS nazionale italiana nel settore. L’obiettivo, spiega il suo fondatore, è principalmente quello di sensibilizzare le persone su un argomento così delicato: l’esclusione sociale volontaria. Inoltre, l’organizzazione offre un sostegno psicologico a tutte le persone direttamente colpite da questo disagio.
Nonostante gli hikikomori in Italia continuino a rifiutare qualsiasi tentativo di reinserimento sociale, molti di loro hanno trovato un rifugio nella didattica a distanza (DAD). L’ambiente scolastico è il primo contesto sociale che viene abbandonato; di conseguenza, questa nuova modalità di insegnamento ha rappresentato per molti hikikomori un’opportunità per continuare il loro percorso di studi, che in una situazione diversa da quella del coronavirus, avrebbero invece interrotto. Secondo Chiara Illiano, psicologa e psicoterapeuta, coordinatrice dell’area psicologica di HikikomoriItalia per il Lazio, la DAD dovrebbe diventare una valida alternativa alle tradizionali lezioni frontali. In questo modo, molti hikikimori potrebbero beneficiarne, una volta terminata l’emergenza sanitaria. Inoltre, la dottoressa aggiunge che questa svolta sarebbe utile a “garantire il diritto all’istruzione anche a coloro che, per problemi o disagi personali, non sono in grado di varcare la soglia di una scuola e di condividere la giornata con professori e compagni di classe.”.
In conclusione, emerge che la pandemia ha notevolmente contribuito alla diffusione di tale fenomeno, così come è avvenuto in Italia. Tuttavia, se ne può trarre qualcosa di positivo: una maggiore consapevolezza, relativa a questo disagio sociale giovanile, e l’avvio di un’eventuale campagna di sensibilizzazione su un tema così poco conosciuto in Italia. Inoltre, gli hikikomori che già vivevano in una condizione di isolamento hanno beneficiato della didattica a distanza prevista dalle restrizioni; si verifica così la possibilità che la loro “normalità” diventi presto un’alternativa alla realtà per come la conosciamo.
A cura di Micaela Filippi