Sono convinta che dai tempi di Strindberg il Nord Europa si sia rivelata terra capace come poche altre di raccontare i nuclei familiari e i rapporti che li sorreggono in modo secco e a-didascalico, strutturandoli con una perenne primordiale tensione. Così come sono convinta che la geografia influisca naturalmente sul modo di raccontare le storie. Heartstone ne è la prova.
E’ il primo lungometraggio del regista islandese Guðmundur Arnar Guðmundsson, già fattosi notare a Cannes con i suoi corti di successo, e ora presentato in concorso nella prolifica e spesso sorprendente Sezione delle ‘Giornate degli Autori’ all’interno della Mostra Internazionale del cinema di Venezia numero 73. Questa occasione è anche il battesimo dell’islanda alla Biennale, perchè è la prima volta che un’opera di questa nazione viene qui selezionata. Il film è anche in concorso per il Queer Lion, riconoscimento dovuto alle pellicole che tocchino temi riguardanti la sfera omosessuale.
La storia è ambientata in un piccolo paesino di pescatori ad est dell’isola, abbastanza lontano dalla capitale, che molto ha a che fare con l’infanzia del regista stesso. Montagne incontaminate, mari sconfinati e non trasparenti, scogliere e piogge che bagnano case di legno rade, poco colorate e tutte uguali. Qui si cresce con la natura, con i suoi ritmi, i suoi colori netti e incontaminati; il sole si nega a lungo d’inverno e sboccia generoso d’estate. Tra queste severe meraviglie crescono Thor e Christian di poco più grande: sono amici da sempre e sono entrambi adolescenti.
Trascorrono l’ennesima estate insieme, ma qualcosa, in questa estate, cambia. Thor scopre di essere attratto da Beth, la ragazza più carina del villaggio, ed inizia a frequentarla. Christian, al contrario, di fronte a questo nuovo girotondo di rapporti si rivela attratto da Thor. Il duo magico dei giovani eroi-fratelli di vita, fatto di intese e giochi complici, si incrina, cambia colore e temperatura, assume nuove forme e contorni, inaspettati e dolorosi: è ciò che ogni crescita adolescenziale impone. Adesso Chrisitan deve stare attento, non può e non deve “comportarsi in modo strano” per il bene dell’amico amato, per il suo di bene, e per quello di una piccola comunità lontana da quasi tutto e in affanno rispetto alle verità non conformi alle naturali aspettative colletive.
Le stesse famiglie dei protagonisti sono tutto fuorchè esemplari: Thor ha una madre single e due sorelle in piena ribellione femminile, e Christian si porta dietro lo spettro di un padre violento e manesco, che ha già picchiato un gay del villaggio, costretto poi ad andare via. Si disegna con semplice e crudele dinamismo una ragnatela di tensioni sotterranee: attraversano come vene avvelenate il villaggio apparentemente ignaro, che sembra in pace con se stesso e con la natura circostante, ma cova paura e rifiuto. I conti sono sempre aperti, si è tutti sotto l’occhio di tutti, il ‘si deve e non si deve fare’ vale anche laddove sembra che l’uomo sia più libero e più giusto che altrove, perchè nessun apparente paradiso resta incontaminato, così come nessuno resta sempre bambino. Si cresce. E fa male. In questo contesto un adolescente omosessuale è un problema, un conflitto costante, una vergogna, una paura, una sconfitta, una situazione difficile da controllare: come una ferita che si rifiuta di cicatrizzarsi.
La menzogna e la repressione degli istinti che si scatenano in questa età così critica è scoraggiante oltre ogni commento. ci vuole un cuore di pietra per non riconoscere o rifiutarsi di riconoscere un proprio simile in bisogno d’amore. Per di più ragazzino. Di qui il titolo. Di qui la forza drammatica dei due protagonisti, che in quanto ragazzi già occupano la scena con una sapienza espressiva intuitiva e sono calamite per gli occhi. Hanno impiegato dieci mesi a trovare la giusta armonia tra loro, una complicità fatta di crescite condivise, pericolose, improvvise, che non ci restituiscono alla realtà come eravamo. Non cambia il mondo, cambiamo noi. Il tempo dell’imparare a conoscersi, turbolento per definizione, ricchissimo di ogni spinta vitale è senza rimedio. Da grandi si sceglie, e guardarsi in faccia dopo le scelte fatte non è mai scontato. Anche l’irrequietezza e l’immediatezza delle stagioni che mutano drastiche in terra islandese ne è riprova, e la storia brilla di una ruvidità dolorosa ed empatica.
Autentico senza dir altro.
A cura di Flavia G. De Lipsis