“I” Factor

“I” Factor

In questi giorni di fuoco per la Storia politica e sociale del mondo occidentale è interessante analizzare un tema che è tornato prepotentemente alla ribalta con le ultime votazioni tenutesi in Germania, Regno Unito e Stati Uniti: il divario tra colti e ignoranti, tra centro e periferia, tra benestanti e poveri. Questo divario è essenzialmente dovuto a un fattore tanto basilare quanto potente: l’ignoranza, dura e pura. Quest’ultima è da intendersi sia nel suo significato originale di “condizione di chi non conosce, di chi manca di conoscenza” sia in quello di uso più comune al giorno d’oggi, dove ignorante sta ad indicare in modo dispregiativo “coloro i quali sono senza educazione o cultura”. Sono due significati evidentemente collegati ma che esprimono differenti sfumature e problematiche. In Paesi come l’Italia il primo significato riguarda gran parte della popolazione, poiché la non conoscenza adeguata di determinati argomenti di pubblico interesse – perché troppo complessi e/o tecnici – intorno ai quali ruota il dibattito politico porta inevitabilmente al distacco fra classi dominanti preparate ed il resto della popolazione. Tuttavia quell’ignoranza può essere riempita da una conoscenza più specifica, se sono presenti condizioni di istruzione di medio o buon livello e una sufficiente dose di apertura mentale e buona volontà. In molti casi questo non avviene – basti guardare al referendum sulle trivelle -, ma una parte di quella popolazione ignorante riesce comunque a colmare il vuoto, mentre per un’altra parte questa possibilità sussiste per lo più in potenza. Ben più grave è la seconda accezione del termine. L’assenza di educazione o cultura porta alla patologica mancanza della seppur minima comprensione degli argomenti trattati dal resto della società, conducendo non allǯassenza di giudizio su quegli stessi argomenti, ma al loro travisamento e/o estrema semplificazione. I giudizi vengono formulati comunque ma risultano terribilmente deformati e costituiscono un recipiente già colmo, incapace di lasciare spazio ad ulteriori idee o argomentazioni: quasi un meccanismo di protezione per una mente impoverita, piena di pregiudizi e non avvezza alla complessità. Ne risultano persone socialmente ottuse, che costruiscono una loro personale, distorta e soprattutto immutabile visione di quanto accade nella civitas. Questi ignoranti acritici, pur non rappresentando solitamente la maggioranza, sono una parte assai rilevante della popolazione. Sicuramente quella sopra riportata è un’analisi aspra ma decisamente stemperata da due importanti elementi: la causa di questa ignoranza e come questa è trattata dal resto della società. Chi sceglie di non informarsi e chi non ha neanche la cultura/istruzione per farlo è sicuramente colpevole della propria ignoranza. Tuttavia va anche rimarcato come questa colpa sia da condividere con i restanti ceti colti e benestanti, soprattutto nel secondo caso. Negli anni passati le classi sociali di livello più basso, e quindi più suscettibili al fattore ignoranza, si sono lasciate completamente abbandonate a loro stesse. Dimenticate da una buona parte della classe politica, sdegnate dai benestanti, queste hanno continuato a dimenarsi sul fondo della catena sociale, sfruttate e vessate dal centro. Gli interventi a favore dell’educazione e della cultura sono stati scarsi, i tentativi di informare criticamente i cittadini ancora meno. Crescono così l’analfabetismo di ritorno e la dispersione scolastica, mentre tra gli “intelligenti” la coscienza viene addormentata con il continuo ripetersi: “E’ colpa loro… sono loro che scelgono di rimanere ignoranti. La possibilità l’avrebbero”. La cosa sarebbe anche parzialmente vera, se non fosse che ci si dimentica (intenzionalmente?) la naturale tendenza di buona parte dell’umanità all’ozio, alla passività. Può questa tendenza considerata una colpa, quando è fisiologicamente presente nella maggioranza dei cittadini? Non sono forse stati i bravi cittadini modello ad aver sbagliato nel progettare un modello “democratico” che non tenesse conto di questa antropologica inerzia nell’ignoranza? Le risposte a queste domande non sono scontate, ma in conclusione sono interessanti le parole di Benigni in riferimento alla nostra Costituzione: “Farebbero bene ad attuarla, prima di pensare a cambiarla. La Carta è nata come una promessa alle generazioni future. “Noi siamo qui riuniti” – disse Calamandrei in quei giorni – “per debellare il dolore e per ridurre la maggior quantità possibile di infelicità.”
Ci rendiamo conto? In questo senso la Costituzione, come la democrazia, è un paradosso, perché chiede a tutti le virtù di pochi”.

Francesco Cocozza

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