I Rohingya: una delle minoranze più perseguitate al mondo   

I Rohingya: una delle minoranze più perseguitate al mondo  

Chi sono i Rohingya? I Rohingya sono un minoranza etnica di religione islamica. L’origine di tale gruppo è discussa: secondo alcuni deriva dalle popolazioni indigene dello stato di Rakhine in Birmania, mentre altri sostengono che si tratti di immigrati musulmani che, in origine, vivevano in Bangladesh. Al giorno d’oggi la popolazione Rohingya è distribuita tra Bangladesh, Arabia Saudita, Pakistan, Thailandia, Malesia e Birmania (nota anche come Myanmar).

Situazione in Birmania. In questo paese, e più precisamente nella parte nord dello stato di Rakhine, si trova la più alta concentrazione di Rohingya, pari ad oltre un milione di abitanti. Purtroppo è in atto da anni nei loro confronti una dura repressione e violazione dei diritti umani. Per prima cosa, non sono considerati appartenenti a nessuno dei 135 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti e, in base ad una legge del 1982 sulla concessione della cittadinanza, non possono ottenere la cittadinanza birmana, nonostante vivano in Birmania da generazioni e sono a tutti gli effetti apolidi. Le conseguenze di questo loro status influiscono negativamente sulla stragrande maggioranza dei loro diritti civili e politici: non hanno diritto di voto; non possono viaggiare liberamente, anche un semplice spostamento di città in città deve essere accompagnato da un’autorizzazione ufficiale; non possono possedere terreni; per potersi sposare devono ottenere un permesso e sono tenuti a firmare un documento in cui si impegnano a non avere più di due figli. Come se questo non fosse già abbastanza, anche la loro libertà di culto è limitata e la loro pratica religiosa è posta sotto stretta sorveglianza, in un paese in cui il 90% della popolazione è buddhista. In sostanza sono una casta invisibile, che vive emarginata e senza diritti, che non ha accesso al mondo del lavoro e un accesso solo parziale all’assistenza sanitaria. La negazione di un’identità e dell’esistenza di tale etnia è stata confermata nel 2014, quando in occasione del primo censo nazionale dall’ultimo tenutosi nel lontano 1982, le autorità birmane hanno vietato loro di identificarsi come Rohingya, permettendo solo la registrazione come Bengalesi (lasciando sottintendere che si trattasse di migranti provenienti dal vicino Bangladesh), andando altrimenti ad escludere dal censimento chiunque avesse rifiutato tale identificazione.

La continua fuga. È dal 1978 che la popolazione musulmana Rohingya soffre per gli abusi subiti dalle autorità birmane, a partire dall’operazione Nagamin dell’esercito birmano, la quale era stata dispiegata con lo scopo controllare ogni individuo vivente nello stato, distinguere i cittadini e gli stranieri in conformità con la legge e intraprendere azioni contro gli stranieri che si erano infiltrati nel paese illegalmente, ma che portò ad efferati e diffusi omicidi, stupri, distruzione di moschee ed altre persecuzioni religiose. In quell’occasione oltre 200.000 Rohingya tentarono di mettersi in salvo, scappando nel vicino Bangladesh. Tra il 1991 ed il 1992, secondo un rapporto di Amnesty International del 2004, oltre un quarto di milione di Rohingya si rifugiò sempre in Bangladesh.

Ma l’esodo non si è mai arrestato, anzi è continuato senza sosta. Le violenze nei confronti di questa etnia hanno subito un’escalation nel 2012, quando alcuni uomini musulmani vennero accusati di aver stuprato ed ucciso una donna buddista. Negli ultimi tre anni decine di migliaia di Rohingya hanno preso la via del mare per sottrarsi alle continue persecuzioni, tentando per prima cosa di raggiungere le vicine coste del Bangladesh, per poi dirigersi alla volta di altri paese del Sud-Est Asiatico, come Thailandia e Malesia. Nel tentativo di sfuggire dalle grinfie di un nemico che non sembra lasciare scampo, sono stati ben presto fatti prigionieri da un altro, forse ancora più crudele: le terribili vessazioni e le torture subite dai trafficanti di uomini durante la fuga in mare sono state raccolte nel rapporto Amnesty “Deadly journeys: The refugee and trafficking crisis in Southeast Asia”, basato su più di 100 interviste con rifugiati Rohingya, tra cui anche bambini. Gli orrori riportati sono innumerevoli: uccisioni a sangue freddo a causa del fallito pagamento da parte dei familiari, mancanza di cibo e di acqua, di medicine, di servizi igenici, sevizie e maltrattamenti continui. Un ragazzo di 15 anni riporta la routine con cui venivano menati: “Di mattina si veniva colpiti 3 volte. Di pomeriggio si veniva colpiti 3 volte. Di sera si veniva colpiti 9 volte”.

L’arrivo. Raggiunto il “porto sicuro”, la loro destinazione, ci si aspetterebbe un netto miglioramento della loro condizione, ma anche in questo caso la risposta è negativa. La maggior parte dei Rohingya finisce per risiedere illegalmente nei quartieri più poveri delle città, quasi senza alcuna prospettiva di vita dignitosa, oppure viene accolta in campi profughi, continuo oggetto di denunce circa abusi e violazione dei diritti umani, ed il più delle volte gli viene intimato di non lasciarli. A partire dal 2005, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati si è impegnato affinché i Rohingya rifugiati in Bangladesh venissero rimpatriati. Nel 2011 il nuovo governo birmano ha acconsentito a far rientrare i rifugiati Rohingya che si trovavano presso due campi profughi a Cox’s Bazar, tralasciando però l’altra stragrande maggioranza che vive in Bangladesh senza registrazione.

I fatti più recenti e una possibile svolta. In seguito ad un attacco avvenuto il 9 Ottobre contro una postazione militare in cui sono rimasti uccisi 9 agenti, attacco attribuito a militanti della minoranza Rohingya, è stata lanciata un’operazione di sicurezza in larga scala dalle forze armate birmane nel nord dello stato del Rakhine. Amnesty Intenational ha denunciato come la campagna militare abbia di gran lungo superato una risposta proporzionata ad una minaccia alla sicurezza, con testimoni che descrivono l’ingresso dei soldati nei villaggi con apertura del fuoco indiscriminata sugli abitanti e molteplici stupri di donne e ragazzine.

Il 2 Gennaio, dopo la pubblicazione su Facebook di un video che vede coinvolti 4 agenti delle forze dell’ordine, due dei quali si accaniscono nei confronti di un uomo disarmato, il governo birmano ha aperto un’inchiesta ed ha provveduto ad arrestare i 4 militari. Si tratta del primo intervento delle autorità birmane a favore della minoranza musulmana e di un riconoscimento, seppur implicito, che tale minoranza è oggetto di maltrattamenti da parte dei servizi di sicurezza. Si tratta solo di un piccolo passo che, però, ci auguriamo possa portare ad un cambiamento significativo di una situazione che si è protratta per troppo tempo.

 

A cura di Chiara Vittoria Turtoro

 

 

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