I, TONYA

I, TONYA

Regia: Craig Gillespie

Sceneggiatura: Steven Rogers

Cast: Margot Robbie, Allison Jenney, Sebastian Stan, Paul Walter Hauser

 

Tonya Harding  fu la prima pattinatrice americana a realizzare in gara ufficiale un triplo axel, il salto più difficile da eseguire con pattini da ghiaccio ai piedi. Ciò le valse nel 1991 il primo posto nei campionati nazionali statunitensi, due classificazioni alle olimpiadi invernali, due classificazioni ai campionati mondiali e molte altre medaglie. Nel 1994 la sua carriera si arrestò bruscamente quando fu coinvolta nell’incidente che occorse alla sua storica rivale Nancy Kerrigan: la pattinatrice riportò la rottura del ginocchio e la Harding, nonostante non avesse aggredito di persona la compagna di gara, fu accusata di essere a conoscenza del piano criminale, architettato invece dall’ex-marito Jack Gilloly e dall’amico Shawn Eckhardt presunta guardia del corpo. Lo scandalo fu enorme. A processo non si andò mai, ci fu un salato patteggiamento e la federazione scelse di revocarle il titolo di campionessa nazionale, vinto quello stesso anno, e di bandirla a vita dalla pista di pattinaggio. Provò a riciclarsi come pugile con scarso successo e scrisse un libro di memorie.

Ecco la storia di Tonya non è esattamente quella di una principessa delle nevi. E non lo è perché Tonya principessa non lo è stata mai. Nata e vissuta nell’Oregon, in una famiglia di modestissimi contadini, il padre lascia la casa ben presto e la ragazza si ritrova a crescere con la madre, Lavona Harding, che vede nella figlia solo, sempre e soltanto uno strumento, un mezzo per uscire dalla lande desolate dove erano sempre vissuti ed ottenere fama, denaro e successo. La spinge in modo ossessivo, cinico e furioso verso il pattinaggio artistico, fin da piccolissima, investendo ogni penny che guadagna come cameriera negli allenamenti, negli insegnanti, nelle trasferte per le gare. E’ una madre atipica, contradditoria, ha con la figlia un rapporto conflittuale ed esasperante: la provoca, la umilia, la punisce, spesso la picchia, coltiva la rabbia della giovane come asso vincente da giocare in pista per vincere le gare, quella stessa rabbia che porterà la gloria e la rovina. Tonya è sgraziata, ma ha grandi capacità fisiche, dotata fin da piccola di istintiva animalità e abilità eccezionali. Per tutta la sua carriera lotta come un guerriero e non come una principessa per ottenere riconoscimento, ma puntualmente i giudici non vanno oltre il muro delle apparenze. Quei capelli, quei costumi, quel trucco, quella interpretazione non valgono quanto i suoi salti e Tonya fatica ad arrivare al podio, aumenta la frustrazione e la necessità di avere affetto diventa bisogno disperato, aggressivo, che deve trovar sfogo in qualche modo. D’altronde di amore poco ne circola in questa storia: la madre di Tonya è la più crudele ed ostinata delle creature, sembra priva di affetto materno ed annega ogni parola ed azione in un sarcasmo tragicomico e maligno, senza farsi perdonare, fino all’ultimo fotogramma. Il marito è solo il primo ragazzo che l’ha guardata con interesse e l’ha fatta sognare un po’ oltre il freddo del ghiaccio e delle persone che l’avevano sempre circondata: non sa fare né dire nulla di particolare, non ha grandi doti, né grandi prospettive, anzi ogni volta che la situazione gli sfugge di mano è violento ed alza più volte le mani contro Tonya, che da buona guerriera lotta, si difende, fugge, lo rivuole, lo ricaccia, non lo perde di vista, insomma non può farne a meno, ma a distanza, perché sa che in fondo la stoffa di cui sono fatti è molto simile: hanno entrambi sentimenti più grandi del poco con cui sono stati cresciuti. L’amico body guard anche lui è un personaggio border-line, al limite dell’inverosimile, capita per caso nei rapporti umani e non si rende conto della sua condizione: è al di fuori della comunità civile, non ha un suo vero spazio nel mondo e si inventa una vita parallela per scampare alla sua palese inadeguatezza, finendo, come spesso accade in questi casi, col convincersi che le sue bugie siano verità.

Non è un quadro romantico, facile o favolistico: è il ritratto della provincia americana più lontana dal sogno americano, dalla “chance to win”, dove non tutto si può fare, perché ogni singolo passo è molto più complesso e faticoso da fare, dove nessuno ti regala niente, nemmeno chi ti ha messo al mondo anzi, tra loro si annidano i traditori più feroci. Rispetto a questo mondo sempre ci si aspettano mele marce, errori, delusioni. Eppure il film è anche una riflessione ironica e tagliente di più ampio raggio sull’America che ama e che odia facile, che viaggia seguendo l’onda emotiva dell’audience, che scatena le sue belve giornalistiche, la fame di scandali, in una marea di commenti, servizi, articoli, interviste, libri, in cui si sviscera morbosamente chi agli occhi di tutti ha fatto la mossa sbagliata, chi avrebbe dovuto tenere un comportamento esemplare e invece non l’ha fatto e di tutto il bene che può aver accumulato prima resta solo l’errore, la macchia. Se ne parli, si giudichi, si additi, si punisca, caschi la testa e poi di corsa a cercare un altro idolo da spolpare.

In questo falso documentario, in parte romanzato, il regista Craig Gillespie (già noto per aver realizzato l’interessante “Lars e una ragazza tutta sua”) intreccia le interviste dei protagonisti re-interpretati dagli attori e le ricostruzioni dei fatti, in una narrazione vivace, graffiante, dagli incastri perfetti; alterna momenti di straniamento, in cui i personaggi parlano direttamente al pubblico commentando con il senno di poi ad attimi di ingenua e riuscitissima immedesimazione; muove la telecamera sul ghiaccio tanto quanto si muovono le gambe della Harding, restandole vicinissima, dandoci la sensazione di essere là con lei e la possibilità di restare col fiato sospeso ad ogni esibizione, ad ogni acrobazia. Brilla Margot Robbie (anche produttrice del film) per lo sforzo convincente di avvicinarsi, lei vera principessa in carne ed ossa, ad un’atleta che delle principesse ne ha fatto suo malgrado copie mal riuscite. Strabiliante la madre Allison Janney credibilissima e terribile, perfettamente in parte, riesce a strappare sorrisi pur nella sua magnifica, assoluta, assenza di pietà. Ottimo anche il marito Sebastian Stan per l’innocenza con cui passa dalla quotidianità incolore alla violenza inaspettata contro la moglie. Meraviglia ancor più che tutti questi individui esistano in carne ed ossa nella realtà e siano esattamente irreali e assurdi così come ci sono proposti sulle schermo; lo dimostrano clip originali contenute nei titoli di coda, a simboleggiare che la realtà ha superato il tavolino della fantasia ancora una volta. E dentro e contro questo sistema Tonya si erge con la sua vita sbagliata, con la sua passione autentica per il pattinaggio che l’ha fatta brillare in mezzo al nulla e ai nulli che la circondavano, con il suo modo di vivere così sfacciato, sguaiato, a volte superficiale, ma mai rinnegato: ha detto quello che tutti pensano e nessuno dice, ha fatto quello che in tanti vorrebbero fare, ma nessuno osa. E’ una principessa sbagliata, che non si è mai tolta dalla scarpe il fango da cui è nata e ne va fiera. In una parola, un’imperdonabile!

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