IL CAVALLO DI TROIA
Alfredo Cospito, 30 ottobre 2013 a Genova. ANSA/LUCA ZENNARO

IL CAVALLO DI TROIA

Sul caso Cospito si è detto di tutto. Come avviene di consueto, rispetto ad un tema di interesse nazionale e ad alta salienza politica, si sono formati due schieramenti, e la questione è stato banalizzata da entrambe le parti. Da un lato l’associazione, per proprietà transitiva – fatta da Donzelli – del Partito Democratico alla Mafia: se visito Cospito in carcere, e Cospito ha avuto contatti con la mafia, sono un mafioso.

La Mafia, in realtà, ha infiltrato tutti i partiti istituzionali. A dirla tutta, e bisognerebbe cominciare a parlarne di più, ha contaminato gli apparati dello Stato, annidandovisi, e si è radicata nel settore privato e delle grandi imprese, accantonando  – ormai lo ha fatto da tempo – la strategia terroristica. Il PD non è esente da queste infiltrazioni, in specie sul piano della politica locale, ma il centrodestra si ricordi che uno dei tre partner della coalizione – azionista di minoranza del governo Meloni – in passato, ha intrattenuto rapporti importanti con il potere mafioso. E nel 2001 Cosa Nostra è riuscita persino a piazzare un suo uomo – il forzista Antonio D’Alì, uno dei fondatori del partito di Berlusconi, eletto con i voti di Messina Denaro – al Viminale, come sottosegretario di Stato (poi condannato in via definitiva, l’anno scorso, a sei anni per concorso in associazione mafiosa). 

Dall’altro lato le opposizioni, divise su tutto, hanno fatto quadrato intorno al PD, chiedendo, quasi a voce unica, le dimissioni di Donzelli e Delmastro – i protagonisti di questa commedia scadente – rei di aver divulgato informazioni riservate. 

Nel vortice della polemica è stata trascinata anche la Presidente del Consiglio, costretta ad intervenire – tirata per la giacchetta – per difendere il duo; Meloni, sostenuta, più tiepidamente, da un Nordio visibilmente imbarazzato, ha negato che si trattasse di informazioni riservate. 

Ma sono in pochi ad aver centrato il punto. In realtà Donzelli ha fatto bene a rendere pubbliche quelle informazioni; l’errore è stato utilizzarle come “clava politica” per attaccare gli avversari. Sembra banale ma non lo è: stando alle informazioni rivelate dal parlamentare, sembra che Cospito abbia siglato un patto informale con alcuni boss mafiosi (con cui, momentaneamente, condivide un interesse). 

L’idea è di trasformare l’anarchico in “un cavallo di Troia”, per scatenare una battaglia politico-mediatica contro il 41bis. Se ne chiede l’abolizione facendo leva sugli aspetti più disumani di questo regime detentivo. Dietro alla campagna abolizionista però, perpetuata per mezzo dello sciopero della fame, si cela la Mafia. Quindi è stato giusto, per certi versi, mettere in guardia l’opinione pubblica. 

L’attacco al PD però è sconclusionato, senza capo né coda; verificare le condizioni dei detenuti è un diritto – se non un dovere – del parlamentare (tant’è che gli sono riconosciuti permessi speciali per accedere liberamente alle strutture carcerarie). Acché svolga la propria funzione, il legislatore ha il dovere di “conoscere un ambito”, o una materia, prima di normarla. Come si fa a legiferare in materia carceraria senza visitare le carceri, o ignorando le condizioni di chi vi è imprigionato? 

Certo, e qui si potrebbe aprire un’altra parentesi, probabilmente sarebbe più giusto, solo ed esclusivamente per i detenuti al 41bis, affiancare il parlamentare ad un ufficiale di polizia giudiziaria, di modo che si controllino vicendevolmente. La ragion d’essere del 41bis è impedire al detenuto di avere contatti con l’esterno. Purtroppo si tratta di un processo alle intenzioni, ma per quanto ne sappiamo, il parlamentare potrebbe “fare da spola” tra il boss mafioso incarcerato e l’organizzazione di cui fa parte, che opera all’esterno. Se non si ha nulla da nascondere, che male c’è a permettere ad un ufficiale di ascoltare e trascrivere su un brogliaccio le conversazioni avute con il detenuto al 41bis? 

Tornando al carcere duro, non si può far finta di niente, e ignorare le svariate critiche di corti e di tribunali internazionali a questo regime detentivo, nonché la sua dubbia costituzionalità, se ci si attiene alla lettera dell’articolo 27. Ma purtroppo, in un paese come il nostro e con la sua storia, nonostante le contraddizioni che lo riguardano – e ce ne sono! – il 41bis resta uno strumento irrinunciabile, sia per ciò che ha rappresentato, a livello simbolico, sia per la sua grande efficacia in funzione antimafiosa. 

Nel “papello” di Riina, consegnato agli uomini dello Stato – in cui Cosa Nostra dettava le condizioni per la pace – al secondo punto si chiedeva l’abolizione del carcere duro. La legge sul 41bis è sporca del sangue di Falcone e Borsellino – che avevano chiesto, a più riprese, un regime detentivo più severo per i boss mafiosi – massacrati a Capaci e in Via D’Amelio. E il senatore Matteo Renzi, che ha parlato di quella legge come di “una vittoria della politica”, dovrebbe vergognarsi: il ceto parlamentare dell’epoca, di fronte alla richieste dei due magistrati, fu inamovibile. Approvò la legge che istituiva il carcere duro dopo la morte di Falcone, senza tuttavia darle applicazione – per remore “garantiste” – almeno fino alla strage di via d’Amelio, in cui perse la vita anche Borsellino. Lo fece soltanto perché si trovò al centro di una serie di pressioni, soprattutto popolari. 

Tornando alla vicenda Cospito, con ogni probabilità, si è sbagliato ad applicare il 41bis anche all’anarchico, perché si è dato adito alle critiche contro il carcere duro. È vero, Cospito non è soltanto un “gambizzatore”, ma un aspirante stragista; di norma, però, questo regime detentivo è riservato a boss mafiosi. E Cospito risponde ad un’organizzazione, la FAI, che per definizione, richiamandosi ai valori dell’anarchismo insurrezionalista,  ha una struttura leggera, orizzontale, disarticolata. I militanti della FAI – non si tratta certo delle Brigate Rosse! – intervengono in maniera spontanea, sporadica, e non sono inquadrati in una struttura gerarchica, che si articola, in maniera capillare, sul territorio. Per evitare che avesse contatti con l’esterno si potevano applicare misure restrittive alternative, come la censura della posta, o si poteva pensare, ad esempio, ad una limitazione dei colloqui con persone esterne. Alla fine dei giochi Cospito, che non ha mai ucciso nessuno, rischia di morire in carcere. E sarebbe una sconfitta per lo Stato.

A cura di Michelangelo Mecchia

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