Alle Olimpiadi di Rio de Janeiro, il 7 agosto la nazionale di beach volley femminile dell’Egitto ha giocato una partita contro quella tedesca. Molti articoli, post e commenti sono stati scritti su questo incontro e pochi riferiti alla vittoria della Germania, due set a zero. L’attenzione del pubblico si è infatti concentrata sulla divisa indossata dalle due giocatrici egiziane, DoaaelGhobashy e Nada Meawad, composta da maglia a maniche lunghe e pantaloni coprenti e anche lo hijab (il velo con cui molte donne di religione islamica coprono il capo) per quanto riguarda la elGhobashy, dando vita ad una polemica di non poco rilievo, tra chi considera l’hiajb un limite per le atlete e chi invece ha considerato l’episodio un incontro tra diverse culture.La diatriba, però, si inserisce all’interno di un dibattito, molto poco “sportivo” che ha accompagnato l’intero svolgimento di queste Olimpiadi 2016: la fisicità degli atleti, in particolare donne. Sul web si è passati da commenti quali “la sexy stella della scherma”, riferito alla medaglia d’argento Rossella Fiamingo, a “il trio delle cicciottelle”, vergognosamente inserito nel titolo di un articolo del Resto del Carlino, che è costato a Giuseppe Tassi il sollevamento dall’incarico di direttore ad opera dell’editore Andrea RIffeser Monti. Articoli come “ i dieci nuotatori più sexy delle Olimpiadi di Rio” sommergono e annullano ciò che sta dietro quel “fisico scolpito”, anni di duri allenamenti, disciplina, costanza e soprattutto tanta voglia di superare i propri limiti e vincere. E’ oramai una tendenza dilagante quella di commentare la fisicità di chiunque che, per un motivo o per un altro, finisce sul piccolo e grande schermo, giornali e quant’altro: un “nazismo estetico” che lentamente ha plasmato i nostri meccanismi mentali, al punto non solo di non far destare meraviglia che di un attore sia commentata la taglia in più e non la tecnica di recitazione, ma di cercare noi stessi quei difetti fisici di cui tanto si parla.La medaglia d’oro di Michael Phelps non è il piacevole risvolto positivo di qualche allenamento in palestra finalizzato all’estetica. Lo stesso ragionamento, però, può essere fatto a contrario quando il corpo viene coperto. Ibtihaj Muhammad, giocatrice di scherma e imprenditrice statunitense, vincitrice di una medaglia di bronzo agli ultimi giochi olimpionici, ci offre un esempio di cosa voglia dire indossare lo hijab. In una intervista pubblicata su La Stampa, la atleta ha affermato: “la scherma mi lasciava gambe e braccia coperte, la maschera sopra il velo e, sì, questo è stato il motivo per cui ho iniziato. Ma non avrei potuto innamorarmi di uno sport che mi chiedeva di trasformarmi. Mi piace anche il fatto che qui conta solo il merito. Una volta calata la protezione, resta l’abilità: nessuno ti valuta più in base a sesso o religione”. Probabilmente non tutti sanno che dal 1996 il bikini per le giocatrici di beach volley divenne obbligatorio, mentre agli uomini erano concessi abiti più coprenti, quali pantaloncini e canotta, e non ci viene in mente altro motivo che non quello di aumentare l’audience delle gare. La “concessione” di indossare magliette a maniche lunghe e leggins da parte della FIVB ( Federazione internazionale di pallavolo) è venuta solo nel 2012, per le Olimpiadi di Londra.Diversamente, quella della “ Hijab- Zorro”, come si è temerariamente soprannominata la Muhammad, è scelta di una donna che ha abbracciato una fede e condivide i principi e i dogmi della propria religione. Ovviamente si sa, indossare il velo in alcuni paesi e in molti casi non è una scelta, ma non per questo possiamo criticare chi decide di vivere in questo modo la propria femminilità, nello sport e nella vita di tutti i giorni. Così come non dovremmo giudicare le atlete che gareggiano seminude, invece che focalizzare l’attenzione sulle loro performance sportive. Ma se proprio se ne deve parlare, bisognerebbe chiedersi: c’è differenza tra una società che impone alle donne di coprirsi e una che impone di denudarsi? E’ sempre una strumentalizzazione del corpo, cambia unicamente il fine. Potere (o dovere?) indossare una minigonna o un top scollato non è sinonimo di emancipazione se non è una scelta consapevole e incondizionata, tanto quanto non è segno di sottomissione indossare lo hijab se è il segno di una personale e sincera scelta di vita. Gli ultimi avvenimenti, in particolare i provvedimenti anti- burkini adottati da circa trenta comuni francesi (che avevano vietato di indossare sulle spiagge il costume femminile islamico) sono chiaro sintomo di quanto “diverso” sia percepito dalla società come “sbagliato” e di quanto ciò che è “diverso” e “sbagliato” ci faccia paura, tanto che sentiamo l’esigenza di combatterlo. In tale contesto, le Olimpiadi si inseriscono come un momento e un luogo di incontro, in cui le diverse culture si danno battaglia solo per vincere le competizioni sportive. Un concetto, quest’ultimo, che non va dimenticato, al fine di non confondere il campo da gioco con le passerelle di moda.
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