Migliaia di bandiere bielorusse bianche e rosse sventolano di nuovo al cielo. Sono divenute ormai il simbolo della protesta che da giorni sta infiammando la Bielorussia, Stato dell’est europeo ed eredità della vecchia Unione Sovietica, dalla quale si è dichiarataindipendente il 27 luglio 1990.
Il 10 agosto, 6.8 milioni di bielorussi sono stati chiamati a “scegliere” il nuovo presidente. Le virgolette non sono un caso: la riconferma di Alexsander Lukashenko non è mai stata in discussione. L’ex comandante supremo delle Forze armate sovietiche guida ininterrottamente il Paese dal 1994, quando vinse con ampio margine le prime elezioni democratiche della Repubblica bielorussa. Da quel momento, il baffuto leader non ha più lasciato il potere, governando con metodi autoritari, reprimendo manifestazioni pacifiche di protesta, cacciando in esilio i suoi avversari o, peggio ancora, facendo sparire diversi oppositori. Da ben ventisei anni, papà “batka” Sasha, come ama essere chiamato dai suoi fedelissimi, va avanti a colpi di rielezioni con percentuali mai inferiori all’80%, talmente inverosimili che nessun osservatorio internazionale le considera valide. La Bielorussia, dove non è stata ancora abolita la pena di morte, è considerata l’ultima enclave totalitaria in Europa e Lukashenko “l’ultimo tiranno” del Vecchio Continente. Reporter senza frontiere, nella sua classifica annuale sulla libertà di stampa, la piazza al 153esimo posto al mondo, ultima per distacco tra i paesi europei.
Lukashenko si appresta dunque ad iniziare il suo sesto quinquennio da presidente, reso possibile dalla modifica costituzionale da lui ordinata nel 2004 per aggirare il limite dei due mandati. Attualmente, secondo gli oppositori, la reale popolarità del presidente eterno è sotto il 10%, ma per alcuni si tratta di numeri addirittura inferiori, al punto da essere soprannominato “Sasha 3%” dai suoi rivali. La rabbia nei confronti del suo governo è stata recentemente amplificata dalla risposta inadeguata alla pandemia, oltre che da una perdurante crisi economica. Il presidente ha bollato come “psicosi” l’emergenza sanitaria in atto, consigliando ai cittadini di bere vodka ed utilizzare le saune per combattere la malattia.
Nonostante ciò, in questa tornata elettorale batka è stato riconfermato con l’80,23% dei voti, contro il 9,9% ottenuto dalla sfidante Svetlana Tikhanovskaya. I candidati dell’opposizione erano in tutto cinque ma la principale era senza dubbio lei: 37 anni, ex casalinga, entrata in politica dopo che suo marito SergeyTikhanovsky, noto blogger e oppositore del regime, è prevedibilmente finito in carcere senza la possibilità di potersi candidare. Come lui, decine di migliaia di persone e altri avversaridi spicco sono stati arrestati o si sono visti negare la richiesta di candidatura. Tale circostanza ha infiammato la popolazione bielorussa, scesa in piazza più e più volte al grido di “democrazia e giustizia” già prima delle elezioni di agosto. La stessa Tikhanovskaya ha confessato: “Non volevo essere una politica. Ma il destino ha deciso che mi trovassi sempre in prima linea nella lotta contro regole arbitrarie e ingiustizia”.
La numero uno dell’opposizione aveva chiesto alla popolazione di non utilizzare la possibilità del voto anticipato (da martedì 5 a sabato 9), bensì di recarsi ai seggi in massa nella giornata di domenica per ridurre il rischio di frodi, ritenendo più difficile falsificare le schede nelle ore immediatamente precedenti alla chiusura delle urne. Il popolo ha seguito l’invito della sua eroina, tant’è che proprio nelle ore finali del voto si sono formate code impressionanti davanti a molti seggi elettorali e perfino davanti all’ambasciata bielorussa a Mosca. Anche la Tikhanovskaya ha votato nel pomeriggio di domenica in un seggio della capitale Minsk, acclamata dalla folla che urlava “Ben fatto, Sveta!”.
Fare politica, in Bielorussia, non è una decisione che si può prendere a cuor leggero, soprattutto se ti metti contro quello che è considerato “l’ultimo tiranno d’Europa”. Ma lei, con i figli al sicuro all’estero e il marito in carcere, è scesa in campo con il sogno di regalare ai suoi concittadini un Paese più giusto e, soprattutto, realmente democratico. “Credo che il nostro presidente capirà che il suo tempo è finito: la gente non lo vuole più”, aveva detto in campagna elettorale rivolgendosi a colui che l’aveva liquidata come una “povera bambina manipolata da burattinai stranieri che deve tornare a suoi doveri casalinghi”.
La Tikhanovskaya non era però l’unico volto femminile delle elezioni bielorusse. Accanto lei, anche loro schierate contro il dittatore, figuravano Veronika Tsepkalo e Maria Kolesnikova.
La prima è la moglie di Valery Tspekalo, ex ambasciatore diventato uno dei più strenui oppositori di Lukashenko, che, così come Tikhanovsky, si è visto impossibilitato a candidarsi alle presidenziali ed è stato costretto a fuggire in Russia per non essere arrestato.
La seconda è stata la responsabile della campagna elettorale di un altro candidato, l’ex banchiere e filantropo Viktor Babaryko, finito dietro le sbarre poiché acerrimo rivale del dittatore.
Le tre donne si sono alleate e hanno costituito il principale gruppo politico anti-Lukashenko, generando una ventata di ottimismo e voglia di cambiamento nella stanca popolazione bielorussa.
È stato loro permesso di candidarsi perché gli uomini del regime non le consideravano un gran problema. Eppure, non c’era giorno in cui non registravano un bagno di folla ai comizi, in ogni angolo del Paese si presentassero.
Tuttavia, come ampiamente pronosticato, Lukashenko ha ottenuto per l’ennesima volta uno schiacciante 80%, frutto di brogli e intimidazioni. La Tikhanovskaja, lunedì 11 agosto, ha dichiarato di non riconoscere i risultati del voto e ha rivendicato la vittoria dopo aver conosciuto i reali dati dello spoglio.
La preoccupazione per le frodi aleggiava già da settimane, da quando gli osservatori internazionali non erano stati ammessi nel Paese e più del 40% dei voti era stato espresso prima del giorno delle elezioni. Nella giornata di domenica 10 agosto, ultimo giorno utile per il voto, Internet è stato interrotto in tutto il territorio bielorusso, rendendo ancora più difficile la raccolta e la condivisione di prove dei brogli.
Stavolta però il popolo, con i giovani e le donne in testa, ha detto basta: non sopporterà l’ennesimo colpo di mano autoritario dell’intramontabile Lukashenko. A migliaia, fin dalla notte di venerdì 8 agosto, sono scesi in piazza nella capitale Minsk e in diverse altre città della Bielorussia al grido di “Libertà” e “Vergogna”, per protestare contro le presidenziali farsa che hanno ridotto le speranze di cambiamento ad un misero 10%. A Minsk, per rendere più complicati i tentativi di contrastare la rivolta, i manifestanti, invece di darsi appuntamento in unico posto, hanno organizzato picchetti e barricate in più quartieri, con gli automobilisti posizionati a bloccare gli snodi principali per impedire l’arrivo dei mezzi pesanti delle forze di polizia. Nelle prime due notti di scontri, i feriti sono stati centinaia e i detenuti oltre tremila. Un uomo è morto a causa di un colpo partito da distanza ravvicinata dalla pistola di un poliziotto e un altro, secondo una ong per i diritti umani, sarebbe deceduto dopo essere stato investito da un mezzo delle forze di sicurezza. Per diverse ore, nella giornata di lunedì 11 agosto, si è temuto per le sorti dell’eroina Tikhanovskaya, recatasi nel pomeriggio a presentare un ricorso formale presso la Commissione elettorale, rimanendovi bloccata al suo interno per sette ore. Poi è arrivato un tweet del Ministro degli Esteri lituano a tranquillizzare tutti: “Svetlana è al sicuro qui”.
Poco dopo, la stessa candidata ha parlato ai suoi sostenitori, scusandosi per non essere stata abbastanza coraggiosa a rimanere nel Paese: “Pensavo che la campagna elettorale mi avesse temprata e mi avesse dato la forza di poter superare tutto, ma probabilmente sono rimasta una debole donna come prima. Prendetevi cura di voi. Nessuna vita vale ciò che sta succedendo adesso. I bambini sono la cosa più importante che abbiamo”. In Bielorussia nessuno crede che la decisione della candidata dell’opposizione di lasciare il suo Paese sia stata volontaria o spontanea. Impressione confermata anche dal presidente lituano che, dopo averle concesso l’asilo politico, ha dichiarato che la Tikhanovskaya fosse stata vittima di pressioni in patria.
Il modo in cui la donna è stata espulsa ha contribuito al montare della rabbia popolare. Il 65enne Lukashenko, però, tira dritto. Promette il pugno di ferro ed ha fin da subito schierato i mezzi pesanti della polizia con granate stordenti, proiettili di gomma, manganelli, gas lacrimogeni e idranti. I dimostranti non hanno intenzione di piegarsi ed il 12 agosto hanno indetto uno sciopero nazionale. “Bloccate Internet e interrompete le comunicazioni per chiuderci la bocca, ma non fermerete le proteste” era scritto su uno striscione esibito da alcuni giovani di Minsk.
Anna Zefesova, giornalista russa esperta di politica bielorussa, non sembra disperare: “Svetlana non è un leader carismatico, è semplicemente la moglie-coraggio del marito arrestato. È più un simbolo che una guida delle proteste. Il fatto che si sia rifugiata a Vilnius piuttosto che a Minsk non cambia nulla, semmai alimenta la protesta e la rabbia popolare”. Le rivolte sono dunque sparpagliate, decentralizzate, coordinate sull’app Telegram per evitare censure e aggirare i continui blocchi di Internet. Gli operai dell’azienda automobilistica BelAZ si sono uniti allo sciopero generale indetto martedì scandendo lo slogan “Dimettiti” tenendo in mano cartelloni con scritto “Il mio voto è stato rubato”. Gli automobilisti suonano il clacson ininterrottamente e intasano le strade per rallentare i dislocamenti delle forze armate. La resistenza è diventata ancora più decisa nella giornata di mercoledì, dopo che le autorità avevano parzialmente ripristinato le telecomunicazioni, facendo circolare i video delle brutali repressioni con l’obiettivo di terrorizzare la popolazione. Hanno ottenuto l’effetto contrario, dandole nuova linfa. Con il passare dei giorni si sono moltiplicati gli appelli a fermare le violenze e indire nuove elezioni. Circa 500 amministratori delegati di aziende tecnologiche hanno minacciato di trasferire le loro imprese all’estero, se la repressione non cesserà. La biatleta Daria Domracheva, un idolo in patria con quattro ori olimpici, si è schierata dalla parte dei manifestanti. L’attaccante del BateBorisov Anton Saroka è stato addirittura arrestato nel corso delleproteste. La stella della nazionale di calcio, il 21enne Ilya Shkurin, ha comunicato che non tornerà a giocare per il proprio Paese fin quando Lukashenko sarà presidente.
Dopo quattro giorni, erano oltre settemila le persone arrestate. Tra di loro anche molti giornalisti stranieri, con gli hotel battuti uno ad uno alla ricerca di reporter senza accredito.
Al quarto giorno di proteste, non appena la rete web è tornata in funzione, fiumi di donne sono scese in strada contro la paura del regime. Migliaia di manifestanti vestite di bianco, “colore della pulizia e dell’onestà” tenevano in mano mazzi di fiori mentre sfilavano per le strade di Minsk, urlando a gran voce le parole “Libertà”, “Rivolta”, “Vergogna”. Chiedevano giustizia per i loro figli, fidanzati e mariti, dispersi, arrestati o trucidati. L’iniziativa ha avuto un così grande successo che in pochissime ore catene umane di donne iniziavano a formarsi spontaneamente in 40 città. Come ai tempi della dittatura dei generali di Videla furono le madri di Plaza de Mayo a prendere in mano l’opposizione e trascinare fuori dal periodo più buio della sua storia l’Argentina, ora le donne bielorusse si stanno caricando sulle spalle la battaglia per la democrazia nel loro paese.
Il 14 agosto sono iniziate le prime scarcerazioni, condite da racconti agghiaccianti sulle violenze subite nelle celle. Stando ad alcune testimonianze, i detenuti erano costretti a stendersi a terra, a pancia sotto, su pavimenti insanguinati e uno sopra l’altro. Durante la detenzione erano privi di acqua, cibo e sonno e venivano regolarmente torturati con l’elettricità o bruciati con le sigarette. Alcuni di loro hanno subito perfino abusi sessuali. Comunque, tutti quelli che uscivano avevano il corpo segnato dalle botte. “Picchiano le persone in modo feroce, impunemente, e arrestano chiunque. Siamo stati costretti a stare in cortile tutta la notte. Potevamo sentire le donne mentre venivano picchiate. Non capisco tanta crudeltà”, ha detto un uomo mentre mostrava alla Bbc le proprie ecchimosi. Amnesty International ha parlato di “torture diffuse”. Un’infermiera arrestata e poi rilasciata ha denunciato che i ragazzi più giovani erano costretti a cantare l’inno nazionale sdraiati a terra, mentre ricevano manganellate su tutto il corpo.
Il giornalista russo Nikita Telizhenko ha scritto un racconto straziante dei suoi tre giorni in prigione, descrivendo le persone che giacevano sul pavimento del centro di detenzione, ammucchiate una sull’altra, in una pozza di sangue ed escrementi. Non erano autorizzati a usare il bagno per ore e nemmeno a cambiare posizione.
La paura ha avuto per diversi giorni un nome ben preciso: OMON, acronimo russo che sta per “Unità Speciale Mobile della Polizia”. I 1.500 OMON attualmente in servizio si sono trasformati in giustizieri con pochi scrupoli. Ogni giorno, gli OMON facevano dei segni con i pennarelli colorati sulle facce degli arrestati. In base al colore del segno, gli uomini dovevano essere picchiati più o meno duramente nelle carceri. Mentre picchiavano i loro concittadini in piazza per la libertà, gli OMON urlavano: “Vi insegneremo per chi votare, vi insegneremo per chi amare”.
Il ministro dell’Interno Yuri Karaev si è scusato pubblicamente con i manifestanti coinvolti nelle violenze. In molti dubitano sulla spontaneità delle sue dichiarazioni, probabilmente effettuate con l’obiettivo di tutelare l’immagine del regime dopo la condanna internazionale e l’indignazione pubblica, mentre nelle carceri si continuavano a spaccare costole.
Il 15 agosto è tornata a farsi sentire la leader dell’opposizione Svetlana Tikhanovskaya, che ha prima invitato i manifestanti a non rimanere in disparte, e ha poi rilanciato: “Sono pronta ad assumermi le mie responsabilità e ad agire da leader nazionale per gestire la transizione e le nuove elezioni presidenziali”.
In tarda serata, la scena che nessuno poteva aspettarsi: dagli agenti in tenuta antisommossa sono arrivati i primi segni di solidarietà nei confronti dei manifestanti. In Piazza dell’Indipendenza, a Minsk, le forze dell’ordine hanno abbassato i loro scudi protettivi per dimostrare fratellanza con gli oppositori. Alcuni di loro tenevano addirittura in mano dei fiori. I manifestanti hanno risposto con dei cori: “Fratelli, nostri eroi” oppure “Noi siamo il potere”. La resistenza si andava ampliando inesorabilmente ma il bello doveva ancora venire.
La giornata di domenica 16 agosto verrà ricordata per la folla oceanica accorsa in strada in occasione della “Marcia della libertà” che ha invaso le strade di Minsk, con la partecipazione di circa 250mila cittadini. Si sono riuniti sotto il monumento dedicato alle vittime della Seconda guerra mondiale, poi hanno marciato lungo Viale dell’Indipendenza ed infine si sono assembrati davanti ai palazzi del potere. Franak Viacorka, analista dell’Atlantic Council, assicura: “È stato il più grande raduno nella storia bielorussa. È come se stessimo assistendo al collasso dell’Unione Sovietica, ma trent’anni dopo”.
Ovunque sventolavano le bandiere biancorosse adottate dalla Bielorussia indipendente prima che Lukashenko ripristinasse quella sovietica rossoverde, ma senza falce e martello. È scesa in piazza anche Maria Kolesnikova, una delle tre donne che avevano guidato la campagna elettorale dell’opposizione e l’unica ad essere rimasta a Minsk, pur consapevole di rischiare l’arresto da un momento all’altro. Ha aizzato la folla al grido di “Combattiamo la paura”. Le forze di polizia, che per giorni avevano usato il pugno duro contro i manifestanti, erano pressoché assenti.
L’odiato Lukashenko, a sorpresa, ha convocato una contromanifestazione nella mattinata dello stesso giorno, ovviamente meno partecipata di quella dell’opposizione. Secondo il portale Tut.by, erano soltanto 5mila i sostenitori presenti in Piazza Indipendenza, la maggior parte dei quali dipendenti statali portati nella capitale con bus e treni speciali e costretti a partecipare sotto la minaccia di perdere il posto. Batka ha respinto l’ipotesi di nuove elezioni e, agitando lo spettro di un intervento russo, ha invitato i suoi seguaci a difendere il Paese e la sua indipendenza dalla pressione dei “pecoroni” stranieri: “Lituania, Polonia e Ucraina ci ordinano nuove elezioni ma non ci dobbiamo far prendere per il naso, altrimenti periremmo come nazione”. Lukashenko ha parlato di aerei e carri armati della Nato dispiegati a ridosso del confine, venendo però smentito dall’Alleanza Atlantica.
Nel frattempo, lo sciopero generale continua a ricevere adesioni. Lunedì 17 agosto è stato il turno dei dipendenti della tv di Stato e dell’ambasciatore bielorusso in Slovacchia, che ha paragonato la repressione a quella della polizia staliniana.
La violenza si è scatenata alle porte dell’Unione Europea e della Nato, che non possono rimanere a guardare. L’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea, Josep Borrell, ha scritto su Twitter: “È urgente un sostanziale cambiamento politico”. Gli ha fatto eco il presidente dell’Europarlamento David Sassoli, che ha invitato Lukhashenko a “fermare la repressione” e ad “astenersi da ulteriori violenze”. Puntuale è arrivato anche l’intervento della presidente della Commissione Ursula von der Leyen: “Non c’è posto in Europa per la violenta repressione di manifestanti pacifici. I diritti fondamentali devono essere rispettati in Bielorussia”.
Nel tardo pomeriggio di venerdì 14 agosto, i ministri degli Esteri dell’Unione europea hanno deciso di imporre sanzioni ai responsabili della repressione in Bielorussia, facendo scattare il meccanismo delle cosiddette “smart sanctions”, utilizzate nell’ambito di diverse situazioni piuttosto delicate della storia recente ed unico vero strumento di influenza in mano ai 27. L’unione di intenti sulle sanzioni potrebbe essere favorita dal fatto che Lukashenko non abbia rapporti particolari con nessun Paese europeo. Da vent’anni l’Unione Europea non riconosce i risultati elettorali bielorussi, da dieci non viene nominato un ambasciatore bielorusso a Washington e un ambasciatore americano a Minsk. Geopoliticamente, dunque, Lukashenko è un personaggio piuttosto isolato. Ha grossi rapporti economici soprattutto con la Cina, ma sembra difficile che Pechino gli dia una mano,considerato il suo scarsissimo peso politico e la dipendenza pressoché totale dalla Russia.
Tuttavia, anche in questo caso l’Unione non riesce a presentarsi compatta quando si tratta di agire da potenza geopolitica, in quanto la Grecia, convinta di non essere adeguatamente sostenuta nello scontro contro la Turchia nell’Egeo, ha deciso di bloccare una dichiarazione comune dei 27 sulla Bielorussia.
Un ruolo particolare è assunto della Polonia, che non ha mai smesso di considerare parti della Bielorussia occidentale come “cosa propria” e da anni finanzia i media indipendenti del Paese. Il leader del governo polacco Mateusz Morawiecki ha promesso che i rifugiati politici bielorussi troveranno aiuto e protezione.
Così come l’Unione Europea, gli Stati Uniti non hanno riconosciuto la validità delle presidenziali. Il segretario di Stato americano Mike Pompeo, dopo i colloqui con il capo di Stato polacco Andrzej Duda, ha dichiarato: “Gli Stati Uniti faranno il possibile affinché i bielorussi costruiscano la democrazia nel proprio paese dopo le elezione presidenziali, che non sono state né libere né oneste”.
L’unico alleato di Lukashenko sembra essere il presidente russo Vladimir Putin, con il quale si è sentito telefonicamente per due volte prima della famosa “Marcia della libertà”. Dopo essersi reso conto che le proteste non esitavano a placarsi, il Cremlino si è detto pronto a fornire assistenza militare in caso di minacce esterne, secondo quanto prevede lo Stato Unitario che lega i due paesi. In realtà, i rapporti tra Minsk e Mosca sono stati incrinati nel tempo da vari dissidi, ma in questa circostanza Putin e Lukashenko necessitano l’uno dell’altro. Il leader bielorusso non ha altre risorse a parte la Russia, mentre Mosca, di fronte al rischio di una rivoluzione in piazza e quindi di una Bielorussia democratica che guarda verso l’UE, è evidente che scelga il male minore rappresentato da Lukashenko. Vladimir Putin si è impegnato negli anni scorsi, prima in Georgia, poi in Ucraina, a ricreare uno “spazio vitale” intorno alla sua Russia e non intende assistere passivamente all’erosione dell’ex blocco sovietico.
La sensazione è che l’intervento di Mosca non sia altro che un bluff per intimidire l’opposizione. Difficile credere che il presidente russo voglia ripetere, alle porte di un’Europa democratica e contro un popolo così pacifico, ciò che successe a Praga nel ’68. Dietro le quinte è assai probabile che Putin stia invece cercando di trattare con l’UE per una soluzione vellutata della crisi. Il margine per negoziare è stretto come non mai, con Bruxelles che non vuole concedere sconti.
L’Occidente stesso non era pronto per questa “rivoluzione”. Sperava sì di continuare il percorso di delegittimazione di Lukashenko, ma senza farlo riavvicinare alla Russia. Stando ad alcune voci, l’obiettivo a breve termine è quello di far piazzare come capo del governo bielorusso il Ministro degli esteri Vladimir Makej, sicuri che questo firmerà tutti i documenti già predisposti di cui hanno bisogno Washington e Bruxelles per il ritiro della Bielorussia dallo Stato unitario con la Russia e per l’introduzione delle truppe NATO nel Paese.
Comunque vada a finire, le immagini di un popolo che combatte per la propria libertà sono impressionanti e commoventi. I bielorussi hanno già inscritto le elezioni presidenziali del 2020 nella lunga e tortuosa storia della lotta per la democrazia.
Articolo a cura di: Tommaso Borzacchini