Lo scorso 16 Aprile 2017 si è tenuta in Turchia una consultazione elettorale referendaria. Tale consultazione chiedeva al popolo turco di esprimersi su una riforma costituzionale adottata dal Parlamento a maggioranza semplice, lo scorso 20 Gennaio. La proposta di riforma prevedeva, attraverso 18 emendamenti alla costituzione turca, il passaggio da un regime parlamentare ad un regime presidenziale. Il risultato, non senza denunce di brogli elettorali, ha visto vincere i Sì (Hevet) di poco (51,3%).
Ma per comprendere a pieno questo fenomeno non possiamo prescindere da un breve riepilogo del panorama storico e politico che ha preceduto questo evento. La riforma costituzionale nasce come punto di arrivo di un lungo percorso storico in cui il destino della nazione nata nel 1923 si è legato strettamente alle vicissitudini del suo leader politico: Recep Tayyip Erdoğan.
Erdogan, attualmente presidente della Turchia, domina incontrastato da ormai quasi 15 anni il panorama politico turco. Arrestato nel 1998 per aver inneggiato ai versi di una poeta turco islamista, uscito di prigione fonda il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), di matrice islamista-conservatrice. Il suo partito conquista la maggioranza dei seggi elettorali nelle elezioni del 2002, ma egli diventa primo ministro solo nel 2003, dopo aver riacquistato l’eleggibilità. Durante gli 11 anni di premierato, avvia un percorso di riforma economica e politica nel paese, avvicinando la Turchia all’Unione Europea, e stringendo relazioni col mondo arabo. Possiamo analizzare su questi due fronti il suo operato politico in questi anni: da un parte il percorso di integrazione europea, dall’altra la proiezione della Turchia come asse fondamentale dell’islamismo politico (l’AKP di fatti deve molto al movimento dei Fratelli Musulmani, soprattutto sul lato dell’ispirazione e dell’identità politica). Non a caso sarà proprio Erdogan uno dei maggiori sponsor delle primavere arabe, ai tempi accolte con un moto di vicinanza anche da parte del mondo politico occidentale. D’altra parte il percorso di riforme, che ha visto la sua compiuta realizzazione nel referendum dello scorso 16 Aprile, era nei fatti già tutto scritto fin dalla nascita dell’esperienza politica del leader turco, fin dalle prime interviste nel 2005 (“se la stabilità è richiesta, per ottenere i nostri obiettivi nel processo di integrazione europea, questa stabilità sta all’interno di un sistema presidenziale”). La riforma del 2007 inaugura questo percorso, con l’elezione diretta del Presidente, mentre nel 2010 vengono introdotte con una nuova riforma, una serie di libertà e diritti utili ad armonizzare la costituzione turca agli standard europei. Molte cose sono successe nel frattempo, eventi che hanno allontanato la sua nazione dal processo di integrazione europea. Fatto sta che anche quest’ultima riforma, nella propaganda del regime, veniva vista come un ulteriore passo verso l’entrata della Turchia nell’UE.
Ma cosa prevede nel concreto questa riforma? La riforma prevede il cambio di regime da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale. Da una parte infatti viene stabilita la coincidenza del Capo di Stato e Capo di Governo nella figura del presidente, figura capace di emanare decreti legislativi su un ampio quadro di competenze. Allo stesso tempo però, quando si parla di checks and balances, sembra discostarsi non poco dai modelli occidentali: la possibilità di mettere in stato d’accusa il presidente è infatti molto più difficile; inoltre, il presidente può sciogliere le camere e detiene forti poteri di nomina in capo ai vertici dell’esercito, dei servizi segreti e del potere giudiziario. Una riforma che per i sostenitori del No (come il partito di sinistra CHP o il partito curdo HDP) minaccia fortemente la libertà e lo stato di diritto, rimpiazzando il vecchio sistema parlamentare nel comando di uno solo. Per i sostenitori del Sì, la riforma vuol dire una sola cosa: stato forte e stabile, pronto a stroncare le minacce interne. Ed è forse la paura di queste minacce che ha spinto la popolazione turca a dire di sì. Di fatti la Turchia è in stato di emergenza da dopo il golpe anti-Erdogan fallito nello scorso 15 luglio 2016. Se questa minaccia può risultare effimera, bisogna considerare anche quella esterna, rappresentata dal terrorismo curdo e dall’ISIS, che negli ultimi mesi ha colpito più volte la nazione.
E poi ci siamo noi occidentali, che dovremmo cominciare per esempio a chiederci quali siano ad oggi i frutti dell’islamismo politico. Nei fatti ci ritroviamo un mondo arabo a pezzi, completamente destrutturato, in una posizione di conflitto permanente di tutti contro tutti, all’interno del quale l’ex leader dell’islam laico e filo-occidentale alterna attacchi e riconciliazioni sulla base della convenienza sul breve periodo. Un leader sempre più in allontanamento dal mondo americano ed europeo, salvo farci accordi miliardari per bloccare l’ondata migratoria. Alla fine la domanda è sempre quella: quando faremo i conti con noi stessi, per pareggiare quelli con gli altri?
A cura di Giuseppe Spataro.