Riccardo Antonucci VS Manfredi Morello
Riccardo Antonucci – Sconfitti in partenza: il futuro dell’Europa
Quale destino attenda l’Europa dietro l’angolo rappresentato dai prossimi anni – per non dire mesi – è un tema dibattuto spesso con toni che a volte rasentano il peggior dibattito fra futurologi improvvisati. Si è spesso fin troppo blandi nell’accennare alle evidenti storture all’interno del funzionamento dell’UE o troppo severi nel cancellarne i successi – alcuni persino ragguardevoli –.
Per questo mi sento di voler spezzare una lancia in favore di un esperimento politico che è riuscito, in un ambiente internazionale alla deriva, ad imporre la centralità di un tema che forse rappresenta il principale successo dell’azione politica dell’Unione Europea: l’ambiente. Esso è divenuto il terreno su cui l’Europa ha saputo ottenere i risultati di gran lunga più evidenti, dal fallimento di Kyoto, affossato dal voto contrario degli Stati Uniti e assunto a grado di elemento fondante dell’identità dell’Europa unita fino al COP21. È anche grazie a questo processo che l’Europa è la regione che vanta la qualità della vita più alta ed è universalmente riconosciuta come una potenza affidabile sul piano ambientale, avendo ottenuto il deposito di una singola Declaration of Intent sottoscritta da tutti gli Stati membri – un risultato ineguagliato da qualsiasi altra regione del mondo –.
La discussione su quali siano i pregi e i difetti di quest’Unione, però, non può essere discussa in semplici termini quantitativi, pensando che vinca lo schieramento con più spunte a proprio favore. I brillanti risultati ottenuti sul fronte ambientale vengono infatti controbilanciati da un’importante serie di traguardi mancati. Il primo ad essere colto anche dallo sguardo più superficiale è relativo all’economia, che vede l’Europa oggi rappresentare il 22% del PIL mondiale e che, secondo le stime, diverrà meno del 20% nel 2030. Oltre ad una significativa perdita di ricchezza in termini di PIL, i Paesi membri dell’UE sperimentano una drammatica crescita delle disuguaglianze economiche, che secondo Eurofound (15 marzo 2017) sarebbero cresciute di due terzi a partire dallo scoppio della crisi. Le ricette proposte dalla Commissione, fondate su un rispetto pedissequo e a tratti ottuso dei vincoli di bilancio e della stabilità finanziaria non hanno prodotto una società più ricca, né tantomeno più equa. Viene spontaneo chiedersi se l’effetto desiderato non fosse proprio portare popolazioni come quella greca ad una crisi sociale di dimensioni drammatiche, dove le restrizioni per il prelievo dei contanti rendevano difficile per gli anziani il comprarsi le medicine. Il progetto europeo prevedeva la creazione di uno spazio comune dove la prosperità non fosse più appannaggio di pochi. L’inesistenza di un welfare europeo e la presenza di logiche di potere di pochi Paesi dietro l’azione di istituzioni comunitarie hanno però reso questo progetto ben lontano dalla sua realizzazione.
Nel futuro dell’UE c’è la necessità di tornare a contare: secondo il professor Zaki Laidi, l’Europa può sfruttare un peculiare strumento di potere per far valere le proprie ragioni, ossia il proprio mercato interno. Esso risulta appetibile per qualsiasi investitore, in quanto è il più grande e differenziato di tutto il pianeta e può risultare uno strumento utile per imporre condizioni normative – già in parte lo è stato, soprattutto in relazione a temi di sicurezza ambientale e alimentare –. Tuttavia, vi sono due fattori che impediscono all’UE di poter contare su questo vantaggio nel lungo termine: la geopolitica, che ci vede privi di risorse in un tempo in cui l’Asia raccoglie la metà della popolazione mondiale e una varietà sterminata di risorse minerarie ed energetiche, e il calo demografico.
Quest’ultima è l’autentica sfida che l’Unione Europea dovrà sostenere nei prossimi decenni e che, a ben vedere, sembra essere destinata a perdere: i dati mondiali sulla natalità vedono l’Irlanda in testa ai Paesi dell’Unione – con un valore di 15.5 nati per 1000 abitanti –, ma al 128esimo posto su 193 nazioni incluse nella classifica. Secondo le proiezioni demografiche, l’Europa sarà la regione con l’età media più alta del mondo – 45 anni – per il 2030. Tanto per avere un’idea, l’Asia avrà per lo stesso periodo un’età media di 35 anni, 10 in meno dei nostri.
Il futuro dell’Europa è quello di competere nel lungo termine con regioni del mondo desiderose di vincere e dotate di tutti gli strumenti per farlo, mentre noi rischiamo di ritrovarci privi di gas qualora la Russia – o gli Stati Uniti, che negli ultimi anni sono divenuti significativi esportatori di gas – decida di staccare la spina.
Il mercato unico potrà essere appetibile ancora per qualche decennio, ma il deteriorarsi della forza lavoro e del potere d’acquisto, unito al massiccio peso gravante su un welfare state che non troverà entrate stabili per sostenersi ed una dipendenza sempre maggiore da Paesi stranieri sono un valido motivo per sperare che questo tramonto sia per lo meno ordinato. Nulla, però, sembra poter impedire al Sole di sparire all’orizzonte.
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Manfredi Morello – I successi dell’Unione Europea: identità, solidarietà e mercato unico.
Nel 2018 la questione identitaria è diventata sempre meno tangibile: nessuno di noi cittadini europei, ad esempio, legge “passaporto europeo” nel suo documento di viaggio; eppure il libero movimento delle persone è uno di quei principi fondanti dell’Unione da non scordare mai, eppure le nostre generazioni viaggiano sempre di più nello spazio europeo, sono cosmopolite, studiano e vivono all’estero grazie ad un progetto chiamato “Erasmus”.
L’Unione Europea sta ridiscutendo la sua identità proprio in queste ultime settimane sul dilemma: più integrazione politica oppure più sicurezza economica? Il primo quesito è sicuramente il più difficile da cogliere. Dove inizia l’integrazione? A questa domanda rispondo in un solo ed unico modo: dove finisce il mercato unico. Quando ci si ferma a riflettere sull’idea di Europa bisogna riconoscerne i passi compiuti nel tempo: in primis, l’UE ha costruito un mercato unico resistente ad una delle crisi economiche, quella del 2008, più complesse e devastanti della storia.
In secondo luogo occorre richiamare il concetto che più stava a cuore ai padri europeisti (Monnet, Adenauer, De Gasperi e Schumann): l’identità europea. Tralasciando quindi il trend positivo dell’economia europea minuziosamente controllata da Francoforte (Banca Centrale Europea) dobbiamo basarci su tale nobile principio, gelosamente costruito nel tempo dai padri fondatori. Come mai noi italiani dobbiamo continuare a pensare di appartenere all’Europa? Perché è uno spazio senza confini interni, plasmato sulla libera circolazione di persone, beni e capitali. Questo è ciò che bisogna attentamente preservare, custodire e migliorare. Non c’è Europa se non vi sono Europei, non c’è unione politica che tenga se non esiste quel rapporto di fiducia tra gli stati, normato dal trattato di Roma del 1957: il principio di “solidarietà”.
I principi di “solidarietà”, “sussidiarietà” e “proporzionalità” sono insieme la chiave di lettura: la storia insegna che le crisi economiche si superano sotto un’unica bandiera e con un’autorità centralizzata, mentre le crisi politiche (Catalogna) si sciolgono con la negoziazione, infine le crisi militari (Libia) si decidono con un intervento congiunto.
L’UE è nata sulla base del principio “tutti per uno, uno per tutti”: se questo precetto venisse messo in dubbio l’instabilità che ne scaturirebbe finirebbe per travolgere quello spazio senza frontiere volto a garantire la stabilità dei conviventi per cui si è lavorato tanto a lungo. Il successo delle precedenti generazioni è emerso soltanto quando è stato messo in gioco, solo quando ci si è riuniti attorno ad un tavolo e ci si è chiesti se valga la pena di partecipare attivamente ad un progetto – gli Stati Uniti d’Europa – per il quale gli stati membri dell’UE dovrebbero (o dovranno) rinunciare alle proprie prerogative in funzione dell’Unione di impronta federalista. Mi riferisco al summit di Madrid del 2004, quando un gruppo di stati, guidati da Germania e Spagna ha proposto il tema della Costituzione Europea. Il progetto è miseramente fallito, per una serie di ragioni radicate nella riluttanza degli stati membri più “giovani” (tra cui il Regno Unito) di accentrare i poteri nelle mani di Bruxelles.
Tuttavia, tale progetto è qualcosa che va ben oltre la politica di palazzo: il fascino degli “Stati Uniti d’Europa” è dovuto alla caratura puramente politica che gli si è voluto dare dal Manifesto di Ventotene in poi.
Ad oggi, L’equipaggio della barca “Europa” ha perso qualche marinaio, ciò nonostante continua a navigare in mare aperto ed a vele spiegate…È vero, l’attuale “concerto europeo” ha perso un suo fondamentale partecipante, il Regno Unito. Ma il risultato di Brexit costituisce un pericoloso segnale che dovrebbe insegnare ai “prossimi” 26 stati membri quanto l’appoggio reciproco – non come per il caso di EMA – sarà la chiave per la stabilità politica.
Certo, sono emerse da ultimo diverse lacune su cui vale la pena riflettere. La questione migratoria dal 2008 è stata infatti gestita non tanto sulla base del principio di solidarietà ma piuttosto sul principio di sovranità che permane come un forte ostacolo all’integrazione. L’arrivo di nuovi migranti è una sfida del XXI secolo di fronte alla quale non è desiderabile lasciare alcuno stato in difficoltà. Il caso dell’Italia insegni: la solidarietà sulla gestione dei flussi migratori è venuta meno tanto a livello di fondi europei quanto a livello di aiuti umanitari.
Si impari dunque dagli errori del passato per migliorare il futuro: gli Europei più avveduti devono credere nel progetto basandosi sul passato, concentrandosi sul presente e riponendo le proprie speranze nel futuro.