Esasperazione. Questo è ciò che trasuda l’Inghilterra dopo la conclusione del referendum che ne ha decretato la volontà di uscire dall’Unione Europea.
Esasperazione è ciò che provano i cittadini inglesi che, stando alle lamentele sempre più frequenti della Polizia di Stato, si abbandonano a crescenti episodi di razzismo esacerbato ed eclatante. Uno di questi, riportato da Repubblica, vede la distribuzione di volantini con la scritta: “Lasciare l’Unione Europea. Basta parassiti polacchi!” nei pressi di una scuola nella cittadina inglese di Huntingdon, contea del Cambridgeshire. La campagna elettorale a favore del Brexit, fortemente alimentata dalla xenofobia divenuta strumento di mobilitazione delle masse, ha contribuito a riesumare un razzismo mai realmente sopito, fattosi forte della legittimazione popolare ottenuta grazie al risultato del referendum. Un calderone ribollente di risentimento e frustrazione, lasciato incustodito da coloro che per primi hanno cominciato a soffiare sulla brace: Nigel Farage e Boris Johnson, principali volti pubblici della campagna pro-Brexit ed ora entrambi rinunciatari ai ruoli di guida dei loro rispettivi partiti, al contrario di quanto sarebbe stato logico aspettarsi.
Esasperazione è ciò che vivono i maggiori partiti britannici ora in balia della radicalizzazione ideologica. Da una parte abbiamo il Partito Conservatore, ora guidato da una possibile nuova Iron Lady (anche se lei non si giudica degna di questo titolo): Theresa May. Ministro degli Interni del Governo Cameron ed esponente dell’ala più rigida del Partito, si è dimostrata fin da subito favorevole al Brexit. Tra i motivi per cui è conosciuta in patria spicca la sua volontà di abrogare lo Human Rights Act del 1998, in recepimento della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. La sua ascesa alla guida del Tories è diretta ed esplicita conseguenza proprio dell’ esacerbarsi delle tradizionali posizioni politiche, con l’ala moderata dei conservatori relegata ad un ruolo sempre più marginale. Tale processo coinvolge anche il Partito Laburista, con il leader Jeremy Corbyn al centro di una spaccatura fra le due anime della sinistra inglese: da una parte la componente più autenticamente marxista, da cui almeno teoricamente proverrebbe lo stesso Corbyn “il rosso” – salvo poi schierarsi contro il Brexit – e che ha visto nell’uscita dall’Unione la riaffermazione di una prerogativa di classe contro gli interessi della finanza internazionale; dall’altra l’area più progressista, legata all’alta borghesia (es. la City londinese) ed intenzionata a preservare l’attuale status quo internazionalista ed europeista.
Il tentativo del leader di mantenere uniti i due schieramenti ha prodotto una campagna politica timidissima ed ambigua, che l’ha portato ad inimicarsi entrambi.
Esasperazione è quanto sta provando l’economia, inglese ed europea, che vede frustrati i tentativi di ripresa portati avanti, fino a poco tempo fa con risultati moderatamente positivi. Se da una parte si sono evitati gli scenari (fin troppo?) catastrofici prospettati da una parte della stampa e degli economisti, è innegabile il pesante colpo subito, dal Regno Unito in primo luogo, in campo economico: in uno scenario di lieve ripresa, il Brexit giunge con perfetto tempismo per riportare i conti a traballare pericolosamente, con le stime dei PIL riviste verso il basso (per il Regno Unito si è passati da un +2% a un -0,5%), la deflazione insistente e inamovibile ai tentativi di contrastarla, la spesa nel welfare da razionalizzare (leggasi ridurre) ulteriormente ed il deprezzamento di una sterlina mai così svalutata da 30’anni a questa parte.
La finanza invece, vera e propria incognita economica del referendum, ha subito degli importanti scossoni ma ha complessivamente retto bene al risultato, almeno sul breve periodo. Sul lungo termine sarà l’ago della bilancia capace di trasformare una situazione negativa ma affrontabile in un drammatico ritorno ad una fase di depressione economica, in base a come si concretizzeranno gli accordi di uscita dall’UE e a quanto pesantemente colpiranno la circolazione di capitali tanto cara al Regno Unito in generale e a Londra in particolare.
Esasperazione è ciò che hanno provato i leader europei, sia nazionali che comunitari, nel vedere che tutte le concessioni ottenute dal Governo di Sua Maestà il 19 febbraio – grazie alle quali al Regno Unito veniva garantito uno status speciale – non sono state sufficienti ad evitare la rottura fra Londra e Bruxelles. Il presidente del Parlamento Europeo Schultz ha dichiarato, poco dopo la rivelazione dei risultati ufficiali del referendum, di volere formalizzare quanto prima la richiesta da parte dell’Inghilterra di uscita dall’UE. Le parole con cui Junker ha colpito i parlamentari dell’UKIP pochi giorni dopo il referendum, chiedendo loro <<Perché siete qui?!>> data la loro volontà di abbandonare lo spazio comune europeo, accrescono il senso generale di delusione e amarezza che i vertici delle istituzioni europee faticano ormai a trattenere.
Twitter, in particolare, è stato il social network più adoperato dagli esponenti politici nazionali e comunitari per esternare le proprie opinioni: al di là della prevedibile euforia di Farage, che parla persino di un nuovo “Indipence Day”, a far eco alla vittoria del Leave vi sono tra gli altri anche Matteo Salvini e Marine Le Pen, che propongo un referendum analogo nei rispettivi Paesi mentre elogiano il coraggio manifestato dai cittadini inglesi.
***Si discostano dalla platea euroscettica il Primo Ministro spagnolo Rajoy, François Hollande e Matteo Renzi, i quali parlano della necessità di ricominciare per ricostruire un’Europa più forte e più unita, imparando anche dal Brexit.
Oltreoceano si fa sentire anche la voce di Donald Trump: il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti cavalca il messaggio euroscettico di ripresa della sovranità nazionale, interpretando la volontà degli elettori inglesi come un segnale per i suoi connazionali. L’insistenza con cui l’imprenditore ha battuto il chiodo della chiusura dei confini, della stretta drastica sul controllo dei flussi migratori provenienti dal Messico e della riduzione del controllo federale su determinate questioni – come la detenzione di armi – permette a quest’ultimo di reinterpretare il voto del 23 giugno secondo l’ottica americana, galvanizzando ulteriormente un elettorato che mostra di apprezzare in particolar modo il decisionismo ostentato del candidato. Inoltre, il meccanismo populista che ha contrapposto la massa all’élite all’interno della campagna elettorale nel Regno Unito è molto simile a quello portato avanti da Trump, che riesce a far suo il voto di quella consistente parte della popolazione stanca dell’intellettualismo dimostrato dalla classe dominante di stampo progressista. Il rischio di vittoria del magnate nella corsa alla presidenza è, dunque, più concreto ora di quanto non lo sia stato.
A cura di Francesco Cocozza e Riccardo Antonucci
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