In un’ancora calda mattinata romana di una domenica d’ottobre, una delle attrazioni che la capitale offre è la neo-allestita mostra di Monet: nell’ala Brasini del complesso del Vittoriano, fino all’11 febbraio del 2018, il Gruppo Arthemisia capeggiato da Marianne Mathieu, storico dell’arte e vicedirettore del Musée Marmottan di Parigi, ha deciso di rendere disponibile al pubblico, romano e non, la visione di 60 capolavori provenienti dal sopracitato museo, allestiti in un percorso che si snoda attraverso diverse sale disposte sui due piani del complesso.
La redazione di Globe Trotter, nonostante la copiosa affluenza di visitatori e le evidenti risultanti difficoltà motorie e visive nel muoversi e nel cercare di carpire quanto di più significativo dalle opere in esposizione, ha deciso di riportare ai lettori le proprie “impressioni” e sensazioni al cospetto dei lavori del pittore parigino, soffermandosi su quelli che a nostra personale opinione sono sembrati i più rappresentativi.
– Barca a vela, effetto sera
Cosa scrivere quando la critica storica tramonta, quella artistica, tanto cara a Flaubert, ancora non è sorta, e la via soggettiva è così insoddisfacente. Nulla, questa sarebbe la via da percorrere, i dipinti non si descrivono: andate a vederlo alla mostra “barca a vela, effetto sera” e recatevi alle mostre en général, sono luoghi santi, dove tra i mediocri ci si dimentica di partecipare alla loro stessa natura e di esserlo nostro malgrado, dove per un giorno ci si può esimere dallo stillicidio del quotidiano.
Pareti monocrome, superfici razionali, lisce, colonne incastonate in lastre di vetro e vita ferma sulle tele, tra queste una si staglia sulle altre, è “barca a vela, effetto sera”.
In questa, una barca a vela in un delirio di luce e colori, è al centro, ferma, sta, intorno a lei tutto fluisce, non è acqua non è cielo, è ousia, è sostanza, che al raziocinio sembra immateriale ma all’occhio risulta pienamente corporea tanto è satura di colore di vita. Il soggetto, la barca, è il punto focale, ma è quel che meno importa, è il riferimento grazie al quale ottenere il moto relativo, moto dato dal colore, dai 1000 colori del reale.
È la retina la protagonista dell’operazione e al raziocinio non resta altro che percepire la vertigine, la vita.
Andrea Locatelli
– Glicini
Tra ninfee e rose, spunta un tocco di viola chiaro: alle rappresentazioni natural-floreali di Monet si aggiungono i glicini. Le ninfee del pittore sono celebri, ma non avevo mai sentito parlare di questa serie — come molti altri quadri dell’autore, non si tratta di un’opera singola, bensì lo stesso soggetto è stato ripreso più volte — e vederla per la prima volta dal vivo è stato uno spettacolo. La misura delle tele è impressionante e girato l’angolo, dopo aver visto cornici medio-piccole, si rimane folgorati. Appartenendo all’ultima fase di produzione di Monet, il tratto è più indirizzato verso l’astrattismo: da vicino i colori possono sembrare macchie indistinte, ma a distanza, osservando l’opera nel complesso e non i dettagli, si intuisce il soggetto — complice, forse, anche il titolo segnato sopra. Il colore tenue trasmette pace e tranquillità, probabilmente le stesse sensazioni provate da Claude nel suo amato giardino, luogo cui crescevano i fiori da lui dipinti e visitabile, attraverso le tele, dallo spettatore senza dover andare fino in Francia.
Ludovica Esposito
– Monet e il Giappone: un legame indissolubile
A partire dal 1854 il Giappone iniziò a commerciare con l’Occidente dopo secoli di isolamento volontario. Le stampe giapponesi presero così a circolare in Europa, ammaliando molti artisti. Monet fu uno di questi.
Dell’arte nipponica egli apprezzò particolarmente l’aura armonica con cui la natura si mostra all’uomo come se i due possano vivere in comunione. Monet fece sua questa filosofia di vita a tal punto da creare, nel giardino della sua tenuta a Giverny, un laghetto artificiale sormontato da un tipico ponte giapponese, che ritrasse in molti quadri.
Di colore azzurro-verde, illuminata da una pallida luce mattutina, la passerella giapponese si fonde con la natura circostante in un interminabile gioco di sfumature. Il ponte è generalmente simbolo di stabilità, di armonia: collega due realtà altrimenti inavvicinabili; qui c’è un ulteriore significato: la passerella che garantisce stabilità e al contempo mobilità all’uomo è diventata un tutt’uno con la natura e altrettanto può fare l’uomo.”
Il ponte giapponese, Claude Monet, 1918-1919, Musée Marmottan Monet
Virginia della Torre
– Londra. Il parlamento. Riflessi sul Tamigi
Percorrendo una delle prime sale che si incontrano, lo sguardo del visitatore non può che soffermarsi sulla rappresentazione di uno dei soggetti prediletti dal maestro impressionista: il parlamento di Londra.
L’opera in questione, “Londra. Il parlamento. Riflessi sul Tamigi”, databile al 1905, attrae l’occhio soprattutto per il contrasto tra i tipi di pennellata utilizzati per ritrarre i diversi componenti dello scenario: se da una parte il forte utilizzo di colori tendenti al bianco ha lo scopo di realizzare una fedele rappresentazione delle acque del Tamigi, dall’altra, esso riesce a rendere perfettamente la sensazione dello sciabordio e del periodico ondeggiare della superficie del fiume, amato compagno del pittore fin dai suoi primi lavori.
Accanto a questo scintillio liquido ed armonico si erge però, a fare da contrasto, la figura quasi totemica del parlamento londinese. Nel realizzarlo, infatti, il pittore utilizza tonalità decisamente più scure, quasi lugubri, stendendole in maniera sfumata e soffocata e riuscendo così nell’impresa di donare alla massiccia figura caratteristiche sfuggenti, ectoplasmatiche.
L’immagine complessiva che giunge all’occhio è quella di una massa oscura che, anche qui grazie alla lunghezza ed alla direzione delle pennellate, sembra faticosamente sollevarsi dalle acque limpide.
Luigi Simonelli
– Ninfee
Monet trascorse gran parte della sua vita nella sua villa di Giverny, dove, indisturbato, ebbe il tempo e la pace necessarie per approfondire e sperimentare la sua tecnica pittorica. Le piante e i fiori della villa sono i soggetti principali delle tele di questo periodo. In particolar modo la ninfea, fiore acquatico di origine sudamericana, diventerà il “topos” artistico del pittore francese, che utilizzerà le sue note colorate per dare vivacità ai suoi quadri. Altro elemento fondamentale è l’acqua, il laghetto, e il suo riflesso, usati per trasmettere all’osservatore una sensazione del tempo fluida e incessante. E’ per questo motivo che Monet dipingerà a tutte le ore del giorno, nell’interminabile e disperato tentativo di trasmettere l’unicità dell’attimo. Nelle ultime produzioni delle ninfee, inoltre, notiamo un Monet più minimalista nella resa dell’attimo o meglio dell’impressione dell’attimo, trasformando le sue ninfee in esasperate pennellate orizzontali e verticali. In queste tele datate 1917-1919, Monet sembra quasi sfociare nell’astrattismo, snaturando la sua pittura e riducendo tutto a chiazze di colore perse in una dimensione astratta, perdendo così ogni tipo di dimensione temporale e spaziale ed elevando l’Attimo ad una realtà eterna.
Lorenzo Rossi
– Trittico dei salici
Il quadro, o meglio i quadri, che mi hanno più colpito all’interno di questa mostra, appartengono al cosiddetto “Trittico dei Salici”. L’artista nell’ultimo stadio della sua vita fa delle piante e delle atmosfere presenti nel suo giardino a Giverny i soggetti prediletti delle sue opere, tra le quali spicca l’imponente Salice piangente.
In un primo quadro il salice viene presentato con una sfumatura più realistica, al tramonto, con tronco e rami ben definitivi, ma che cominciano a sfumare nel fogliame, grazie alle pennellate del maestro che, coerentemente alla sua idea di arte, non rappresenta, ma “dà l’impressione” del vento fra le fronde.
Un secondo quadro, dalle tinte più fosche, rappresenta lo stesso albero, ma questa volta il tronco non è distinguibile sulla tela: protagonista qui è il fitto fogliame, rappresentato al tramonto con il semplice accostamento di tempere calde e fredde, quasi anteprima di ciò che avverrà nel terzo quadro, in cui il salice si fonde in un tutt’uno con la selva circostante.
Nell’ultimo dipinto l’autore perde qualsiasi pretesa di rappresentare un “albero” nella comune accezione, mantenendo però le linee delle pennellate che rispecchiano l’andamento discendente delle fronde della pianta, dipinte con sfumature accesissime rispetto ad altre rappresentazioni di tramonti.
Monet in questo trittico delinea il passaggio dall’arte figurativa all’astrattismo, passando per l’impressionismo: i contorni che tradizionalmente definivano la figura lasciano il posto alla personale visione dell’artista, che riesce ad incantare e restituire una personale visone della realtà attraverso semplici pennellate di colore sulla tela.
Leonardo De Marco
– Bozzetti preparatori
Mi è sempre piaciuto Monet con il suo stile sognante e ho avuto la fortuna di ammirare molte delle sue opere sparse per il mondo, ma neppure a Parigi avevo mai notato i disegni preparatori, forse perché riposti in angolini bui o addirittura non esposti.
Al Vittoriano invece, la mostra si apre con le caricature a matita con cui ha iniziato la sua carriera e, sparsi per le stanze, si trovano alcuni bozzetti delle tele.
Molti concorderanno che la forza di Monet sta nel colore puro, nelle pennellate che si sovrappongono, nel bianco e nell’avorio che illuminano e coronano le opere o ne sono le fondamenta laddove la tela è lasciata nuda. La forza dell’artista sta nelle macchie di blu inaspettate, nel rosa dei tramonti, nella vitalità delle sue opere. I disegni preparatori sono piccoli, essenziali, e allontanano l’impressionista dall’attimo effimero che era intenzionato a cogliere. Gli schizzi allora sembrano sospesi, in attesa che venga loro donata la vita attraverso la tavolozza.
Guardando la mostra ho capito perché Monet preferiva evitare i disegni preparatori e perché questi sono rarissimi da trovare all’interno della sua produzione: Monet è il colore, e senza colori non ha la stessa potenza, come Sansone quando viene privato della sua chioma.
Francesca Cresta
– Le rose
Un ramo fiorito, l’immensità del mondo e la fragilità dell’esistenza rappresentata dallo sbocciare di un fiore e portata su tela.
“Le rose”(1925-1926) di Monet è forse il canto del cigno del pittore impressionista. Nonostante il progressivo ed inevitabile affievolirsi della vista, il cacciatore di soggetti ricerca ramingo attimi di colore in grado di illuminare la tela; la sua è una vita dedita alla scoperta di sinfonie di colori che non si ripeteranno mai più, giochi di luce e di sensazioni che ne caratterizzano tutta la produzione artistica. Attraverso i corridoi del Vittoriano,ci perdiamo nel mondo dell’artista, quello intimo, del suo giardino di Giverny, immersi nelle acque dove le sue amate ninfee regnano sovrane. È un’esperienza coinvolgente, un dialogo tra l’osservatore e il pittore. Stupisce sempre, conquista, la sua capacità di rendere eterno un momento effimero, destinato a svanire.
Francesca Feo
– Il giardino di Giverny
Una canzone per dipingere una storia, un movimento per esternare un’emozione e un pennello per aprire un mondo in una tela. Piccoli strumenti che nelle nostre mani possono farci vivere un sogno ad occhi aperti, scavare nell’anima della gente e sanare le ferite del cuore. Monet l’aveva capito, usava i colori per sanare il bianco vuoto della tela, riproducendo lo stesso vuoto che aveva dentro e colmandolo con i colori. Colori caldi e freddi, in questo quadro dipingono una natura viva e imprimono sulla tela l’impressione che attraversava la sua mente e, avvicinandosi, si può sentire il profumo dei fiori, gialli come il sole che sfiorava il suo viso nel giardino di Giverny, rossi come la passione che legava il pittore al pennello che aveva nelle sue mani, verdi come la speranza, come l’erba ancora fresca su cui i fiori nascono. Le sfumature di rosso, poi, convergono a disegnare un piccolo spazio d’universo in cui perdersi, un universo parallelo in cui stanziarsi per osservare i dettagli che ci circondano e, sprofondando in essi, possiamo raggiungere la nostra stessa essenza. Monet era un artista che sapeva accarezzare con pennello l’anima delle persone e questi fiori sono simbolo della sua estrema sensibilità: se siamo in grado di sentire il profumo davanti a questo quadro, non ci resta che perderci in un’esperienza oltre noi stessi.
Paola Nardella
– Una pigra domenica d’autunno
L’Altare della Patria, i Fori Imperiali, lo squarciosul Colosseo.
In una pigra domenica d’autunno Roma è travolgente, la sua bellezza quasistordisce. Ci si sente piccoli, le individualità sembrano scomparire dietro i passi che saranno presto cancellati da suole nuove.
Nel complesso del Vittoriano l’universo infinitamente grande di Roma contrasta con l’universo infinitamente piccolo di Monet. I palmi sudati delle mani, le scarpe sporche di fango, di quel chewing-gum che qualcuno è stato troppo pigro per buttare nella spazzatura, i vestiti appesantiti dalle impronte della metro o degli autobus si infilano silenziosamente nella dimensione così umana, così fragile dell’artista che la nostra visita sembra una violenta intrusione per cui ci si sente quasi in dovere di chiedere scusa.
Si rimane col fiato sospeso davanti alle tele, passi lenti cadenzati dauna folla soffocante e dal timore di rompere con un sospiro di troppo o con un movimento affrettato e goffo l’equilibrio che Monet si era faticosamente creato nel suo eden privato a Giverny.
Ed è proprio tra le Ninfee che si coglie appieno la coincidenza tra Arte e Artista: camminare nei corridoi stetti del museo che ospita le opere significa passeggiare tra le pareti dell’anima nuda del pittore, attraversare indenni le ossessioni che lo hanno tormentato fino alla morte, le paure che lo consumavano, la passione che gli rubava il sonno, la sua barba bianca e lunga macchiata dal tabacco, i suoi occhi danneggiati dagli anni, le dita colorate dalla pittura che sembrava non andare più via.
E poi all’uscita, dopo avergli rubato un pezzo d’anima, ci si scrolla di dosso le ansie di un’artista tormentato e che per un attimo sono state le nostre.
Chiara Lai