Inchiesta sul Fine Vita

Inchiesta sul Fine Vita

INCHIESTA SUL FINE VITA

Incertezze e prospettive dopo il ddl. Calabrò

“I temi etici non possono essere affrontati dal Parlamento.”; “I temi etici vanno lasciati alla libertà delle coscienze.”; “I temi etici non sono una priorità: viene prima il lavoro, l’ economia, la sicurezza…”. Quante volte abbiamo sentito queste frasi in tribune politiche, talk show, arene televisive. Poi, però, i temi etici bussano alla porta dell’ indifferenza, si impongono sulla carne viva dei cittadini, balzano agli onori della cronaca. E diventano “caso”. E’ successo col “caso” Welby, col “caso” Englaro e succederà ancora con chissà quanti altri “casi”. Ed improvvisamente la politica si accorge che “forse” su questi temi c’ è bisogno di intervenire, ma a quel punto l’ urgenza del contingente, la contrapposizione delle ideologie, la dittatura dell’ emergenza impediscono l’adozione di previsioni adeguatamente ponderate. Ed allora, come uscirne? Difficile ed allo stesso tempo semplice: con la riflessione, l’ approfondimento , la critica, con la consapevolezza che di questi temi è necessario parlare proprio quando essi sembrano non più di attualità, per farsi trovare pronti o almeno meno impreparati, quando presto o tardi, di attualità torneranno ad essere. E’ quanto hanno provato a fare un gruppo di ragazze e ragazzi del corso di Diritto Penale delle Scienze Mediche,  guidati dal Professor Cristiano Cupelli. Si è deciso così di analizzare (con approccio rigorosamente tecnico giuridico, per quanto tale materia sia ontologicamente intrisa di contaminazioni etico – morali) l’ ultima iniziativa parlamentare in materia di “fine vita”, “il più sensibile tra i temi eticamente sensibili”, ovverossia il cd. “ddlCalabrò”, mai entrato in vigore, al fine di individuare pregi e difetti del testo e tratteggiare  le linee guida per una possibile futura legge sul tema. 

Letterio De Domenico 

Nelle intenzioni dei proponenti, il ddlCalabrò, recante “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”, avrebbe dovuto inverare nella legge ordinaria i numerosi principi costituzionali a vario titolo rilevanti in materia di “fine vita” e sanciti dagli artt. 2, 3, 13 e 32 Cost.: dignità della persona, uguaglianza, libertà personale e diritto alla salute. Dalle citate diposizioni della Carta fondamentale, la maggioranza parlamentare  ricavava i pilastri che avrebbero dovuto reggere la costruzione normativa: divieto assoluto di ogni forma di eutanasia e di accanimento terapeutico, valorizzazione (più supposta che reale, per ciò che si dirà) del consenso quale fondamento di legittimità e limite dell’ intervento terapeutico, assistenza alle persone in stato vegetativo permanente.  L’ attuazione di tali direttrici, più nello specifico, passava innanzitutto per l’ assunto che di norma e salvo i cd. trattamenti sanitari obbligatori (consentiti entro il ristretto perimetro delineato dall’ art. 32, II, Cost.), nessuna attività medica possa essere realizzata in assenza del consenso2  informato del paziente. Se la presenza del consenso è imprescindibile per iniziare e proseguire qualunque trattamento medico, fuorché quelli obbligatori, se ne ricava a contrario che l’ assenza del consenso impedisce l’ attivazione o la prosecuzione dell’ attività terapeutica stessa. Tuttavia, secondo la prospettiva adottata dal ddl, tale principio doveva essere contemperato col valore cardine dell’ inviolabilità della vita umana, sicché un trattamento medico poteva dirsi rifiutabile o interrompibile, in quanto esso non pregiudicasse il bene vita di cui il medico veniva considerato unico garante. Come unico garante, egli era dell’ altro bene giuridico richiamato dalle norme costituzionali di riferimento: la salute. Salute, concepita nel ddl., esclusivamente nella sua dimensione fisico – materiale, quale assenza di processi patologici incidenti sulla sfera clinica del paziente. La medesima logica presidiava il regime giuridico del cd. paziente incapace. Ferma la doverosa tutela dei soggetti in stato vegetativo, qualificata come livello essenziale di assistenza ed assicurata attraverso prestazioni ospedaliere, residenziali e domiciliari, la vera novità del ddl era l’ introduzione delle cd. DAT, Dichiarazioni Anticipate di Trattamento. Esse dovevano consistere in una manifestazione di volontà con cui il dichiarante si sarebbe espresso, con determinate formalità, in merito a futuri trattamenti sanitari in previsione di un’ eventuale successiva perdita della capacità di intendere e di volere.  Per il ddl la DAT non poteva però contenere indicazioni in contrasto col diritto positivo e la deontologia medica, ed in particolare indicazioni che chiedessero o inducessero il medico a determinare la morte del dichiarante. Nessun diritto all’eutanasia, nessun diritto a morire, ma esclusivamente un diritto alla sospensione o alla non attivazione di pratiche terapeutiche non vitali. La proposta escludeva infine che le DAT potessero riguardare l’alimentazione e l’idratazione artificiale,  concepite non come trattamenti sanitari, ma quali meri sostegni vitali tali da dover essere mantenuti fino al termine della vita, qualsivoglia fosse stato l’orientamento illo tempore espresso dal paziente, salvo casi eccezionali ed invero residuali, di comprovata intollerabilità dei preparati nutritivi per il debilitato organismo del malato. Ad ogni modo il ddl era chiaro nel non ritenere le DAT vincolanti per il medico, il quale ne avrebbe dovuto solo tener conto. Completavano la proposta alcuni previsioni di dettaglio, per le quali si rinvia il lettore al testo del ddl facilmente reperibile in rete

Ora, nonostante l’encomiabile sforzo che il ddl ha profuso nel cercare di affrontare in modo organico una materia tanto complessa e delicata, la proposta si espone a critiche numerose e non superabili. Al di là di profili di dubbia tecnica normativa, la proposta segna una sorta di “ritorno al passato”,  che sembra rinverdire una concezione paternalistica ed illiberale del rapporto medico-paziente e che cancella,con un colpo di spugna, anni di faticosi progressi sulla via della piena valorizzazione del principio di autodeterminazione terapeutica , del diritto alla salute intesa nella sua dimensione psichica oltre che fisica e della piena salvaguardia della libertà personale. Innanzitutto censurabile la scelta di accomunare nella stessa ambigua categoria, eutanasia, le condotte comunque volte a cagionare la morte di un uomo od ad agevolarne il suicidio, inoltre motivate dalla volontà, più o meno pietosa, di alleviarne  le sofferenze e garantirne una  “dolce morte”, cd. eutanasia attiva, ed il rifiuto dei trattamenti medici salva vita, cd. eutanasia passiva. Mentre, infatti, la prima ipotesi rileva penalmente ai sensi, a seconda dei casi, degli artt. 575, 579 e 580 c.p., la seconda è un diritto ricavabile dal combinato disposto degli artt. 32 e 13 Cost. ,  la cui portata non può, infatti, essere limitata, come fa il ddl, ai soli trattamenti medici cd. non vitali. Chiara, sul punto la Suprema Corte: “il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un’ ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto [una] scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale”3Detto altrimenti, la Costituzione non prevede un diritto a morire, ma certamente afferma la libertà di non curarsi anche a costo di lasciarsi morire,sicchèse la volontà del paziente capace e adeguatamente informato è nel senso di essere curato, per il medico scatta un obbligo giuridico di curare; invece se la volontà del paziente è quella di non essere curato, si produce un divieto giuridico di curare.Anche perché, diversamente opinando, si finisce per affermare che un paziente può essere costretto a subire trattamenti sanitari non obbligatori contro la propria volontà, in palese contrasto con gli artt. 32 e 13 Cost. e, se ben si riflette, anche con l’ art.3. Prevedere che il paziente, mentalmente capace, ma fisicamente impossibilitato a disporre autonomamente del proprio corpo a causa di processi morbosi degenerativi o per altra grave infermità, possa essere costretto a soggiacere all’applicazione od al mantenimento di trattamenti sanitari che, anche contro la propria volontà, ne consentano il mantenimento in vita ( palese il riferimento al caso Welby), significa non solo violare il diritto alla salute ed alla libertà personale ma anche il principio di eguaglianza,  visto che si discrimina ingiustamente tale malato rispetto a quello fisicamente in grado di sottrarsi da se alla terapia. E la stessa cosa vale per l’ idratazione e la nutrizione artificiale; a parte l’ opinabilità della loro mancata riconduzione al genus dei trattamenti medici, col ddl si finisce per costringere a subire manipolazioni invasive della sfera corporea (visto che tali presidi necessitano dell’ introduzione e del mantenimento  nell’ organismo di sondino naso gastrico) non solo il paziente  incosciente che avesse in precedenza inequivocabilmente affermato di non voler sottoporvisi, ma anche il paziente cosciente il quale si trovasse nella condizione di non poter più sottrarsi spontaneamente al posizionamento e mantenimento della cannula. Infine non meno discutibileappareil carattere non vincolante riconosciuto alle DAT cosicché esse, da strumento di valorizzazione del diritto all’ autodeterminazione terapeutica, divengono poco più che un flatus vocis.

In chiave propositiva ci sembra opportuno sottolineare come, volendo valorizzare al massimo i principi costituzionali che sanciscono la libertà di autodeterminazione terapeutica, un futuro intervento normativo in materia dovrebbe: omettere ogni riferimento al termine eutanasia, vocabolo atecnico ed equivoco, ferma l’ incriminazione dei delitti di cui agli artt. 575, 579 e 580 c.p.; riconoscere il diritto al rifiuto di cure anche per i trattamenti medici vitali; garantire il necessario supporto medico ai pazienti che decidano di interrompere un presidio terapeutico salva vita; conferire valore vincolante alle DAT, pur con adeguati meccanismi che consentano di assicurare l’attualità, la liceità e la compatibilità con le conoscenze medico scientifiche, della volontà espressa dal paziente; qualificare come trattamenti medici alimentazione e nutrizione artificiali e non escluderli dall’ ambito applicativo delle DAT. E, soprattutto, il Parlamento dovrà prendere atto di come non si potrà imporre per legge alcuna concezione morale, filosofica o religiosa della vita e delle morte.

Letterio De Domenico,  

Alessandra Medici,  

Giulia Pagano,  

Sara Salvatore,  

Beatrice Salciccia,  

Alessandra Vitale,  

Piercarlo Zizzari, 

Coordinamento e supervisione: Chiar.mo Prof. Cristiano Cupelli

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