Damasco. La guerra per le strade, un palazzo abbandonato, una famiglia senza via di uscita, prigioniera delle quattro pareti di un palazzo che ancora resistono ai cannoneggiamenti e di quello che rimane di un mondo, un’atmosfera tesa e claustrofobica.
Oum Yazan (Hiam Abbass) è la personificazione della capacità di resistere alla più grande delle tragedie, e ai suoi lutti, che non si fermano alla perdita delle persone care; una donna disposta a tutto che trova nel suo carattere la forza necessaria a salvare quello che resta del suo mondo.
Philippe Van Leeuw (il Regista e Sceneggiatore) porta sul grande schermo “Insyriated”, un’opera oggi necessaria. Non ha puntato su budget hollywoodiani ma sulla forza di un cast capace di un’interpretazione di rara intensità, densa di emozioni : HiamAbbass (“Lemon Tree”, “Munich”, “La Sposa Siriana”), DiamandAbou Abboud (“Beirut Open City”, “Here comes the rain”, “Stable Unstable”) Juliette Navis (“The Ugly One”, “Ma part dugâteau”, “Letters to Max”) e Husam Chadat (“Rock the Kasbah”, “Stable Unstable”, “Tatort”).
Il film -presentato per la prima volta alla 67esima Edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino, dove ha vinto il Premio del Pubblico- è stato proiettato in anteprima in Italia a fine Ottobre e alla Festa del Cinema di Roma, tra i titoli della sezione“Tutti ne parlano”. E proprio al Festival ho avuto l’opportunità di incontrare Van Leeuw.
Guardando il suo film, sembra quasi di trovarsi a teatro. La scelta di ambientare la pellicola per 24 ore nello stesso luogo è dovuta a motivi pratici o la sua è una scelta poetica?
Dovevo cercare di rendere questo film realizzabile nel più breve tempo possibile (il film è stato girato a Beirut ndr), si sa che i film che parlano di eventi bellici – anche se per me questo non è un film di guerra, ma sulla guerra- richiedono mezzi, e io non volevo essere vincolato da questo fatto, e quindi ho immaginato un appartamento in cui vive una famiglia e ho scelto un’unità di tempo di 24 ore. Sapevo benissimo che in quell’arco temporale non potevo presentare delle situazioni molto complesse però sapevo che mi sarebbe bastato per i momenti più cruciali.
Quello che accade, e purtroppo ormai da anni, in Siria è una tragedia che appare senza fine, Come è nata l’idea di raccontare questa storia, cosa l’ha colpita in particolare?
Io non sono un siriano,quindi quello da cui sono partito è il mio punto di vista di osservatore. Ho cercato di studiare, esplorare cose per me accessibili, e per me queste sono le persone come noi, la gente normale, che si trova intrappolata dalle condizioni imposte dalla guerra e deve cercare di trovare i mezzi per vivere, e nella misura del possibile, cosa non sempre facile, continuare a farlo con dignità. Ora, la chiave di questa storia è stata una persona che ho incontrato a Beirut. Mi ha raccontato la drammatica esperienza di suo padre, che si trovava ad Aleppo e che per tre settimane era stato costretto a rimanere in casa nell’impossibilità di uscire. Da lì le cose sono state abbastanza semplici.
Molta della tensione che si vive nel film e della violenza che si percepisce arriva più che dal vederla dall’ascoltarla. E sembra in qualche modo proteggere lo spettatore dalla situazione da quello che sta accadendo…
Si è vero, questo solleva la questione della rappresentazione della violenza nel cinema. Io ho sempre cercato di evitare di mostrare la violenza attraverso le immagini, ho sempre pensato che meno si vede, meglio si sta, però è anche vero che questo è un problema difficile, per esempio nella scena dello stupro io volevo assolutamente che si sapesse che c’era uno stupro in corso ma allo stesso tempo non volevo cadere nel voyeurismo, volevo dunque cercare di mostrarlo lasciando al personaggio, in qualche modo, una posizione di dignità.Quindi ho pensato che trasferendo la macchina da presa sui volti degli altri attori sarei riuscito a colpire altrettanto, se non più profondamente lo spettatore. Con il suono trovo che si sia più abili,si riesce ad essere più autentici, e l’autenticità per me era la chiave del film.
La storia si concentra sulle donne che vivono nell’appartamento, già di per se sottoposte a forte stress sia fisico che psicologico a causa della situazione in cui si trovano, era dunque per lei necessario rappresentare anche lo stupro di una di loro?
Ancora prima che scoppiasse le guerra in Siria io volevo trattare l’argomento dello stupro come arma di guerra, una cosa purtroppo estremamente crudele e ahimè molto frequente; e anche se sapevo che dovevo affrontare questo tema non ero sicuro di come farlo, in quale contesto inserire questo momento. Ma era chiaro che si trattava di un passaggio essenziale e ho voluto mostrare come si difendono le donne, che lo fanno in modo diverso dagli uomini. Essi finiscono spesso per rispondere alla violenza con la violenza, mentre invece le donne riescono nella maggior parte dei casi a non rimanere coinvolte in questo meccanismo, e questo era un aspetto fondamentale che volevo trattare.
Nel corso del film non ci sono riferimenti geo-politici precisi, si percepisce quindi l’idea della guerra senza però collocarla in un momento e in un luogo precisi. Era anche questo un suo obiettivo ?
Si, questa situazione non è molto localizzata, si capisce che è Damasco ma potrebbe essere anche Sarajevo, Beirut o qualsiasi altra città durante la Seconda Guerra Mondiale. Penso che le persone normali come noi conoscano la guerra in modo diverso da come si conosceva una volta. Oggi la popolazione civile è ancora più coinvolta di quanto non lo fosse in passato. Voglio dire cioè che è diventata un bersaglio, si mira ai civili per colpire i combattenti. E’ una scelta. Cosa che prima non avveniva.
Ha già qualche progetto in mente per il futuro?
Diciamo di si, ma preferisco non parlarne oggi . Penso si concentrerà sull’America di Trump.
Alla fine è Van Leeuw a fare una domanda a me ,sui miei studi universitari. Quando gli dico che studio Politics, Philosophy and Economics mi sorride e annuisce. Conta su noi giovani, mi spiega,per riportare un po’ di pace in questo Mondo.
A cura di Francesca Feo